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MICHELINA GRILLO (PRESIDENTE OUA)
RELAZIONE TENUTA AL XXVIII CONGRESSO NAZIONALE FORENSE
Organismo unitario avvocatura italiana
XXVVIII Congresso nazionale forense – II sessione Roma 21 – 24 settembre 2006 Relazione del presidente dell’Oua Avv. Michelina Grillo Questo Congresso si apre in un momento del tutto particolare per l’Avvocatura italiana: un momento in cui l’assetto ordinamentale della professione ed il suo concreto esercizio sono oggetto di interventi tanto discussi quanto discutibili, che compromettono la libertà, l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato, tramite qualificato per la tutela dei diritti, custode geloso e responsabile dell’altrui diritto di difesa. Quando il Comitato Organizzatore del XXVIII Congresso Forense decise all’unanimità di prevedere la divisione in due sessioni, aprendo i propri lavori a Milano e chiudendoli a Roma, al di là delle ragioni manifeste o meno che avevano indotto ogni componente del Comitato medesimo ad aderire a tale scelta, su una ragione ci trovammo tutti d’accordo essendo, purtroppo ed ancora una volta, buoni profeti: concordammo sulla necessità di permanere in assemblea congressuale durante la fase di passaggio dalla XIV alla XV legislatura. Il Congresso, infatti, si sarebbe aperto al termine della passata legislatura e concluso subito dopo l’avvio dell’attuale, con Parlamento e Governo appena insediati. La stessa lucidità e lungimiranza, malauguratamente, è poi mancata dopo Milano quando, per ragioni che restano tanto oscure quanto non più rilevanti nella contingenza che ci affligge, si crearono le condizioni perché non fosse celebrata questa sessione conclusiva del congresso nel mese di giugno, fino a rischiare di non celebrarlo del tutto. Assenza di lucidità e lungimiranza, sento di doverlo chiarire subito, che forse non ci avrebbe salvato dalla illegittimità e volgarità degli attacchi rivolti alla nostra categoria, come dimostrano modalità, termini e giustificazioni dei provvedimenti adottati e la grossolana soddisfazione espressa sul punto da quei soggetti economici (o economicamente interessati) che hanno contrattato col Governo la svendita della giurisdizione nel nostro Paese, ma che certamente avrebbe impedito di farci riconoscere e percepire come una categoria lacerata al suo interno da piccole gelosie di primi attori, ed in quanto tale vulnerabile e facilmente aggredibile. Questo Congresso è diverso da ogni altro che lo ha preceduto. Al termine di un mandato, peraltro eccezionalmente lungo come questo, è consuetudine che il Presidente dell’Organismo politico rassegni al Congresso l’attività svolta in ottemperanza al mandato ricevuto ed agli impegni assunti all’atto dell’insediamento. Non temo di apparire pletorica affermando che per qualità, quantità ed autorevolezza di interventi, nonché per l’attenzione dedicata alle esigenze delle realtà ordinistiche, alle associazioni forensi, anche specialistiche, ed ai singoli iscritti agli Albi territoriali, l’Organismo Unitario che ho avuto l’onore e l’onere di presiedere chiude questo mandato con un bilancio non soltanto positivo, ma anche degno di nota. Ma questo non è tempo né di ricordi – che chi vorrà potrà comunque “rinfrescare” leggendo le rassegne in distribuzione sull’attività del mandato - né di autocompiacimenti. La scelta dell’Organismo Unitario, di rinunciare in Congresso alle relazioni dei propri componenti, privilegiando spazi di autentico dibattito, oltre a suggerire per il futuro nuove strade per una moderna organizzazione e gestione di un congresso politico quale è e deve essere il Congresso dell’Avvocatura, era una necessità irrinunciabile oggi che la base dell’Avvocatura ci chiede con veemenza analisi compiute, indirizzi chiari e determinazioni conseguenti alle recenti novità legislative. In questa assise congressuale è proprio la voce degli avvocati italiani, dei singoli delegati di ogni foro, che deve risuonare alta e forte, non solo per manifestare una giusta e legittima protesta e denunciare i gravi squilibri ed i vuoti che le recenti normative hanno determinato, ma anche per contribuire concretamente alla formulazione finale di quelle proposte qualificate di cui l’avvocatura da anni è stata politicamente capace di essere portatrice, ancorché il più delle volte colpevolmente inascoltata. Nel mese di luglio, a Governo appena insediato, i professionisti italiani ed alcune altre categorie di lavoratori autonomi, sono stati destinatari di una decretazione d’urgenza, voluta dal Presidente del Consiglio e dal Ministro per lo Sviluppo Economico, che per finalità, modalità, contenuti ed atteggiamenti successivi, costituisce uno degli attacchi più violenti, sguaiati e preoccupanti mai rivolto - dall’unità d’Italia ad oggi - ad una categoria di lavoratori (quali anche noi siamo) e di liberi pensatori. Per essere più espliciti, il Governo, in violazione delle stesse norme ordinamentali, che pongono le professioni liberali sotto la competenza e vigilanza del Ministro di Giustizia, neppure preventivamente informato, contravvenendo ad ogni regola di democrazia che prevede la concertazione con le parti sociali interessate, ricercando per contro il consenso interessato di altre categorie produttive organizzate, principali destinatarie dei benefici di tale normazione – in violazione in questo caso anche delle norme in materia di concorrenza e di affidamento della clientela - agendo in via abrogativa senza preoccuparsi dei vuoti normativi determinati, introducendo norme finanziarie e tributarie che, di fatto, inserite nel corpo di questo provvedimento, il Governo, ripeto, ha descritto, in una norma di legge, l’odierno professionista come un soggetto senza scrupoli che, illecitamente e frodando il fisco, trae le sue fonti di reddito dalle vessazioni di consumatori e utenti, incidendo negativamente sulle possibilità di sviluppo economico del Paese. Un soggetto, una categoria, tanto più pericolosa in quanto politicamente incontrollabile, dalla quale questo Governo afferma che il Paese debba essere difeso, ma che in realtà si vuole ridurre al silenzio, quale voce libera, naturalmente antagonista del potere in favore della difesa del singolo, limitandone gli spazi di movimento e riducendone le aspettative economiche, in vista di un prossimo, auspicabile, smembramento. Ciò in una con la riduzione degli ambiti della giurisdizione, con l’assenza di volontà politica finalizzata alla ripresa di efficacia e di efficienza della macchina giudiziaria e con la sistematica, costante compressione e svilimento, dentro e fuori il processo, della difesa tecnica. Questo, purtroppo, è il disegno che appare nelle dichiarazioni contenute e ricavabili dal Dl Bersani e da ulteriori iniziative legislative già note o prannunciate. Anche il metodo è indice di protervia e di inflessibile, ostinata determinazione. E’ appena il caso di ricordare che il Dl Bersani è stato “varato” di notte, mentre gli Italiani erano distratti dal positivo risultato di una delle partite della Nazionale ai Mondiali di calcio, ed è stato convertito in legge in tempi record, chiedendo al Parlamento il terzo voto di fiducia in dieci giorni, in un procedere convulso, quanto determinato, che ha mortificato lo stesso parere espresso dalla Commissione Giustizia del Senato, contenente emendamenti al decreto che, soprattutto per la professione forense, venivano proposti al fine di evitare di incorrere in innumerevoli e fondate censure di incostituzionalità, di cui il famigerato decreto è costellato e caratterizzato. È appena il caso, poi, di soffermarsi sulla circostanza che nello stesso provvedimento sia stata prevista una riduzione degli stanziamenti per il comparto Giustizia pari a 350 milioni di euro in tre anni a partire da quello in corso, con buona pace dei progetti di ammodernamento della macchina giudiziaria, di introduzione di innovazioni tecnologiche, di miglioramento degli standard di vita nei penitenziari (infatti immediatamente risolto con un provvedimento di indulto che, permanendo tale filosofia, potrebbe non essere l’unico nei progetti di questo Governo). Anche tali misure appaiono confermare l’esistenza di un progetto compiuto, tendente alla compressione della tutela giurisdizionale dei privati cittadini a beneficio di organismi conciliativi di diretta promanazione o posti sotto il controllo dei potentati economici, che ottengono in tal modo la garanzia di “non restare vittime” di un’applicazione della legge terza e neutrale rispetto ai destinatari della stessa. Mai come in questo contesto si può affermare che un avvocato debole, e quindi una difesa debole, piace ai poteri forti. Con un colpo di mano, che parifica il prologo della legge ad un messaggio di pubblicità ingannevole, apparentemente dettato a tutela del cittadino consumatore, e quindi del singolo persona fisica, il Governo ha evidentemente voluto per un verso favorire la concentrazione di potere e l’accaparramento di clientela nella gestione di attività fino ad oggi caratterizzate dalla libera iniziativa anche dei singoli, per altro incidere in modo grave sull’efficacia della giurisdizione a beneficio di una categoria di organismi economici che si preparano ad assumere al contempo la veste di gestori dei “servizi legali”, quella di parti della contesa economica ed infine di giudici della contesa medesima (favorita dall’ulteriore disegno di legge in materia di cd. class actions). La dettatura delle linee guida del decreto Bersani da parte dei poteri forti confindustriali (basti leggere le indicazioni di obiettivo contenute nei documenti ufficiali dell’Assemblea di Vicenza dell’aprile 2006), quanto all’abbattimento dei pretesi vincoli allo sviluppo rappresentati da tariffe, divieto di pubblicità e di costituzione di società multiprofessionali con l’ingresso di capitale esterno, dimostra come ci si sia ben guardati dal privilegiare la qualità delle prestazioni rispetto ad un livellamento al ribasso dettato da mere esigenze di carattere economico : l’obiettivo di fissare limiti minimi alla qualità delle prestazioni professionali è stato infatti definito come non praticabile e non opportuno, in quegli stessi studi già citati, in quanto configgente con la volontà di abbattere i prezzi delle prestazioni stesse ad ogni costo. Non può tacersi poi il malcelato ed incondizionato favore per l’ingresso di soci terzi capitalisti negli studi professionali, che risponde alla altrettanto precisa esigenza di consentire di esercitare un surrettizio “controllo” su rilevanti settori dell’attività giurisdizionale e non, da parte di un capitale che ha l’aspettativa di essere remunerativamente investito nel settore dei servizi professionali, i quali, come attestano recenti e meno recenti elaborazioni Istat – l’ultima delle quali del corrente mese di settembre – mostrano un trend assolutamente positivo ed in crescita percentuale di tutto rilievo. Ultima, ma non meno preoccupante prospettiva, è data dalla possibilità di vedere dichiarata incostituzionale la norma – risultato di indimenticate, compatte e forti battaglie dell’intera avvocatura – che all’attualità prevede l’incompatibilità tra l’attività lavorativa part-time e l’iscrizione all’Albo professionale. L’Organismo Unitario rivendica con orgoglio le azioni intraprese – oggi purtroppo compiute in assoluta ed incomprensibile solitudine - a difesa della vigente normativa in materia. Il Ministro del welfare ha, infatti, preannunciato l’esigenza di adottare in tempi rapidi misure di flessibilità e di mobilità nel settore del pubblico impiego, necessitando così nuovi sbocchi occupazionali per tutti coloro che, inevitabilmente, dovranno rinunciare alla sicurezza sin qui garantita da impieghi sicuri e remunerativi. Non può sfuggire l’effetto deflagrante ed incontrollabile che ne conseguirebbe, peggiore perfino della totale abolizione – pure adombrata – degli esami di abilitazione. È per tutti tali nobili motivi, più sopra elencati, che da parte del Governo si è ritenuto di poter liberamente provocare un vulnus profondo nel tessuto della nostra Nazione, moltiplicando le tensioni sociali, mortificando la dignità di oltre tre milioni di lavoratori autonomi, che per la gran parte svolgono la loro attività in modo ancora “artigianale”, il cui sviluppo così certamente non potrà essere favorito? Lavoratori che mai nulla hanno chiesto allo stato, neppure nei momenti di difficoltà, pur garantendo il lavoro di un numero almeno pari di dipendenti, oltre l’indotto. Si tratta, per parlare soltanto dell’Avvocatura, di una categoria di oltre 170.000 iscritti che, con tutti i limiti causati dall’assenza di una riforma realmente ammodernatrice, chiesta da decenni e mai ottenuta - piaccia o meno - ha garantito l’esercizio della funzione giurisdizionale in questo Paese, colmando quotidianamente e silenziosamente le innumerevoli lacune del sistema giudiziario e della sua organizzazione, frutto di un atavico disinteresse di tutti i Governi – passati e presenti - per il buon funzionamento della giustizia. Una mortificazione ancora più grande per i cittadini, retrocessi da questa legge al rango di consumatori, i cui diritti vengono massificati e la cui tutela viene compressa per favorire i contraenti più forti, con il sostegno “morale” di talune, sedicenti, associazioni di consumatori - studi legali organizzati da soggetti terzi - cui il Governo assicura, ove funzionali a tale disegno, cospicue contribuzioni – sotto forma di convenzioni - per un ammontare complessivo di oltre 30 milioni di euro l’anno, somme che giocano, com’è di tutta evidenza, un ruolo non indifferente nello sviluppo di tali studi in concorrenza con quelli dei liberi professionisti!! Questi i fatti, così come tra i fatti va ascritta l’incredibile propaganda ed il controllo mediatici esercitati sulle reazioni al decreto, utilizzando tutti i canali informativi riferibili al Governo o ai poteri economici che oggi ne condividono l’azione. Ne è ultimo e illuminante esempio l’ultima puntata del talk show “Ballarò”, che per la parte in cui avrebbe dovuto occuparsi approfonditamente del decreto Bersani, compiendo un opportuno dovere informativo nei confronti del cittadino sui pro e i contro delle norme ivi contenute e sulle ragioni della protesta dei professionisti e degli avvocati italiani, ha invece ritenuto di “ospitare” l’unica rappresentante di categoria in uno studio attiguo a quello della trasmissione, concedendole pochi minuti e soltanto due brevi “spot”, per non creare al Ministro Bersani gli imbarazzi che sarebbero derivati da un vero e serrato contraddittorio. Prova ne sia che le poche domande formulate non hanno trovato alcuna risposta, ma hanno comunque determinato un visibile disagio, malcelato da un atteggiamento sarcastico e noncurante, che ha imposto un richiamo espresso al rispetto dovuto ad ogni categoria. A contorno, si è dovuto registrare – nella stampa come negli altri media - persino l’uso spregiudicato di sigle e personaggi, del tutto disarticolati dalla categorie, non rappresentativi neppure di minoranze organizzate di essa (come l’ANPA), che non soltanto hanno partecipato in qualità di utili servitori alle fasi preliminari del progetto, ma sono state financo utilizzate per evidenziare divergenze di posizioni all’interno dell’Avvocatura che invece, è questa è forse la vera sorpresa per Bersani e le sue quinte colonne interne alla categoria, sul tema è apparsa compatta e reattiva al di là di ogni previsione. Una ferma risposta non può attendere. Nulla può giustificare o fornire comodi alibi a chi ha sferrato tale proditorio attacco ai professionisti, ai lavoratori autonomi e comunque all’Avvocatura. Questo Congresso, quindi, deve costituire luogo e tempo della sintesi del malessere dell’avvocatura, ma anche luogo e tempo per l’elaborazione compiuta e consapevole del suo progetto di modernizzazione. Fondamentale in tal senso è comprendere se abbiamo un progetto di modernizzazione condiviso; ma, ancor prima, è necessario capire se davvero sentiamo di appartenere, così come siamo soliti ripetere, ad un corpus unico che, per quanto composito e diversificato al suo interno, è omogeneo quanto ai valori che costituiscono i capisaldi della professione forense, primi fra tutti l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere e/o condizionamento, oltre che il sentire l’avvocato quale principale mediatore tra le istanze ed i bisogni di tutela dell’individuo, lo Stato o comunque la P.A. ed il sistema costituzionale di tutela giurisdizionale. Proprio il sistema giudiziario, nell’ultimo decennio, è stato progressivamente messo in crisi, inizialmente privandolo delle necessarie risorse economiche ed umane, mentre si intensificavano le riforme processuali a costo zero, e da ultimo, sia nella passata legislatura sia, ancora più brutalmente, all’inizio dell’attuale, propagandando illusori rimedi contro “la lunghezza dei processi”: provvedimenti che moltiplicano le occasioni di erosione della giurisdizione e contestualmente tendono non più – come anche il lessico prescelto denuncia – all’esercizio della giustizia, ma alla risoluzione di controversie in forma sempre più seriale e massificata che, in nome della celerità della composizione delle crisi, funzionale al sistema socio-economico, non esita a sacrificare i diritti dei singoli, procedendo nei fatti alla più ampia e occulta riforma costituzionale mai registrata nella storia del Paese. Con buona pace di tutte le procedure di infrazione avviate nei confronti dello Stato Italiano dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea, che piuttosto sembrano costituire un alibi dietro il quale il Governo pensa di nascondersi non tanto per ridurre i tempi eccessivi di durata del processo, ma per eliminare il processo. Lo dimostrano le improvvide, sintomatiche recenti dichiarazioni del Ministro Mastella, sull’ipotesi di eliminazione del giudizio di appello civile, a conferma peraltro dell’assoluta ignoranza del Ministro circa il fatto che i giudizi d’appello non sarebbero di per sé di lunga durata, ma lo divengono – ahimè - per l’attuale disorganizzazione delle Corti d’appello, che produce ormai quasi ovunque il differimento della vera udienza di trattazione a non prima di tre anni. Ma se il quadro descritto è ormai chiaro alla quasi generalità dell’Avvocatura, più difficile è comprendere quale direzione la stessa voglia intraprendere. Dichiaro subito che non intendo unirmi al coro di coloro che ritengono che ogni determinazione debba essere preceduta da una lunga auto-flagellazione, così come non intendo al tempo stesso occultare le nostre responsabilità ed i nostri limiti. Essi sono sotto gli occhi di tutti, e primariamente sotto i nostri: questa categoria, come ogni altra in questo nostro Stato, ha risentito di uno sviluppo sociale che per troppi decenni ha disconosciuto l’esigenza di una selezione basata sul merito e soffre di ampie sacche di mediocrità come qualunque altra espressione professionale, così come risente il limite di un Paese che non si è mai preoccupato di formare una classe politica e dirigente preparata e nel quale ogni attività, anche quelle caratterizzate da rilevanza sociale, viene interpretata e gestita più con riferimento ai risvolti economici ed ai livelli occupazionali che alle finalità che tale attività deve perseguire. Queste, in sintesi, le questioni, da tempo evidenziate nelle produzioni ed elaborazioni dell’organismo politico, che prima o poi sarà necessario affrontare e risolvere e rispetto al quale l’Italia registra un notevole ritardo. Su queste questioni l’Avvocatura italiana deve essere capace di un colpo d’ala, e di impostare la propria iniziativa politica per i mesi a venire, uscendo con forza dall’angolo nel quale si ritiene di averla relegata, prigioniera unicamente di una riflessione tutta dispiegata al proprio interno sull’assetto ordinamentale. È necessario che l’Avvocatura concluda questo Congresso con un pacchetto di iniziative forti, articolate e condivise, in grado di manifestare all’opinione pubblica, e far comprendere al Governo ed alle forze politiche tutte che non intende piegarsi alle logiche liquidatorie in atto. Occorre altresì pervenire alla formulazione di una Carta dell’Avvocatura italiana, che chiarisca, senza possibilità di equivoci e fraintendimenti, i principi fondamentali della riforma delle professioni e della riforma dell’ordinamento forense, sui quali non è possibile mediazione alcuna, nella consapevolezza piena della dignità e dell’orgoglio della nobile e delicata funzione difensiva che è chiamata a svolgere e dell’importanza che nel Paese sia preservata, a tutela di tutti gli individui, la primazia della giurisdizione. È perciò indispensabile che i rappresentanti dell’avvocatura, qui riuniti nella massima e più autorevole assise, sappiano tradurre le legittime aspettative di una classe forense esasperata ed indignata oltre ogni dire, in un progetto politico che veda la convinta partecipazione ed adesione di tutti. Da questo Congresso non è consentito ad alcuno offrire altri regali a chi ha dimostrato di considerarci non interlocutori necessari in un civile dibattito sociale e politico e soggetti ineliminabili della giurisdizione, ma nemici politici ed avversari. L’avvocatura sappia ritrovare, proprio nel momento più delicato della sua storia recente, la capacità di ascoltarsi e la forza di farsi ascoltare. |