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PAOLO ROSA
(Avvocato del Foro di Trento)
BREVI NOTE IN TEMA DI ABOLIZIONE DEL C.D. "PATTO DI QUOTA LITE" L’art. 2233, comma 3, c.c., vietava il cd. patto di quota lite, disponendo che gli avvocati non possano, neanche per interposta persona, concludere con i loro clienti patti relativi ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e del risarcimento dei danni. La disposizione che trovava corrispondenza nel divieto, posto dall’art. 1261 c.c., di cedere crediti litigiosi a favore di determinate persone dell’ordine giudiziario ed a favore dei professionisti legali, voleva impedire un abuso a scapito del contraente più debole ed anche preservare l’integrità dell’opera dell’avvocato, consentendo la tutela del decoro e della dignità professionale. Con un tratto di penna (l’ormai famoso Decreto Bersani, convertito in legge) tale divieto è stato rimosso ancorché fosse ormai millenario! Il divieto del patto di quota lite, infatti, era in vigore fin dai tempi del diritto romano. Ricorda Ulpiano come sia cosa lodevole per il difensore anticipare le spese di lite per poi ripeterle dal cliente mentre non gli è permesso pattuire la corresponsione della metà dell’oggetto della lite. Tale divieto era sancito anche nel diritto intermedio per il quale una pattuizione di tal genere era contra bonus mores. Ricorda Francesco Gasparri nel suo Brevi considerazioni sui fondamenti del divieto di patto di quote lite in Gius. Civ. 1998, 12, 3207, che in alcune codificazioni preunitarie il patto di quote lite era considerato talmente riprovevole al punto che in taluni casi era prevista addirittura la sanzione penale. Infatti il codice penale del Regno delle Due Sicilie (art. 207), Il Parmense (art. 1853), Il Sardo (art. 309), Il Toscano (art. 197), L’Estense (art. 187), a conferma della rilevanza pubblicistica del divieto del patto di quota lite punivano il difensore che, approfittando dello stato di soggezione del proprio cliente, aveva preteso un compenso economicamente troppo oneroso. La giurisprudenza e, in particolare, la Suprema Corte di Cassazione si è ripetutamente pronunciata sulla legittimità del divieto del patto di quota lite. Rammentiamo, da ultimo, le sentenze Cassazione Civile, S.U., 16.12.2005, n. 27702, Cass. civ., Sezione II, 15.11.2004, n. 21616, Cass. civ., Sezione II, 27.02.2004, n. 4021 e Cass. civile, Sezione II, 19.11.1997, n. 11485. Sostanzialmente la Suprema Corte da sempre va affermando che “il divieto del cd. patto di quota lite (art. 2233, comma 3, c.c.) tra l’avvocato ed il suo cliente, si ricollega essenzialmente all’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense che risulterebbe pregiudicata quando nella convenzione concernente il compenso sia comunque ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli”. Ora è accaduto che in nome di una concezione mercantile della professione forense e della asserita tutela del consumatore si è rimosso un divieto che aprirà la strada a pericolose involuzioni. Vincenzo Vigoriti, Ordinario dell’Università di Firenze, nel suo Patto di quota lite e libertà di concorrenza in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2003, 2, 583 era stato buon profeta nell’affermare che “l’impressione è che quella a favore del divieto di quota lite sia una battaglia destinata ad essere perduta. E la ragione sta nel fatto che sia l’intento di preservare il processo da apporti inquinanti, che la concezione dell’avvocato portatore di valori immateriali superiori stanno cedendo alla pressione delle esigenze imprenditoriali della professione”. E fra i molti segni del prevalere di queste ultime, c’è appunto quello dell’abolizione del divieto di quote lite. Intanto conta l’atteggiamento dei Paesi di Common Law, dove pur si afferma la proibizione, ma poi la si limita, e sostanzialmente vanifica, con artifizi interpretativi e distinzioni solo formali. La spiegazione ricorrente dovrebbe essere nobilitante, perché si dice che con questi strumenti si riesce ad assicurare ai non abbienti l’accesso alla giustizia. Quasi non si sapesse che in realtà quei patti sono voluti (cercati) non solo da clienti meno abbienti, o poco disposti a rischiare, ma anche da avvocati che, esperti dei vari settori, bene conoscono le potenzialità delle singole controversie e non esitano a stipulare patti (fino a “comprare” la lite), a condizione di vantaggio (ad esempio, fissando una soglia risarcitoria bassa e sicura, oltrepassata la quale i compensi professionali sono maggiorati). Insomma, la sperequazione culturale ed economica fra il cliente e l’avvocato (quasi sempre la regola) è sovente tale da esporre il primo a seri pericoli, per cui non è vero che l’avvocato rischia in proprio, ma è vero il contrario, e che a rischiare è il cliente, contraente debole meritevole di tutela. In secondo luogo, ostilità per il divieto viene espressa anche in molti ambienti europei continentali, dove magari si continua a tributargli omaggio formale, salvo poi aggirarlo più o meno apertamente senza neppure bisogno di fornire quelle giustificazioni che altri si affannano a fornire. Così, ad esempio, in alcuni paesi, non solo i singoli, ma anche centri di potere economico sistematicamente e istituzionalmente coinvolti nel contenzioso (banche, assicurazioni, sindacati) di frequente si accordano con i legali convenzionati nel senso che non saranno corrisposti compensi in caso di soccombenza, compensi che saranno invece maggiorati di una percentuale della somma ricavata in caso di vittoria.” Dopo il Decreto Bersani dobbiamo prendere atto che il divieto di quota lite, nonostante la sua storia millenaria, è stato abolito. La materia andrebbe allora meglio disciplinata ad esempio limitando gli accordi al solo settore in cui il bene litigioso ha una precisa valenza economica (recupero credito, risarcimento del danno ecc... ) escludendolo per tutti gli altri settori nei quali si tratti di altri beni, come diritti fondamentali della persona, interessi dei minori e simili. Una volta disciplinate le modalità di utilizzo del patto di quota lite sarebbe necessario predisporre strumenti sanzionatori efficienti e credibili se vogliamo che la professione forense non perda la sua specificità e soprattutto la sua dignità e moralità. Sull’abolizione del divieto non resta che attendere l’intervento della Corte Costituzionale. Trento, lì 28 agosto 2006 Avv. Paolo Rosa |