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EDILBERTO RICCIARDI
AVVOCATO - GIA' PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
Toghe bocciate perché non è un disastro
Sono uno degli «avvocati con i capelli bianchi» che Diego De Silva, con le sue osservazioni pubblicate nella sua rubrica domenica scorsa, ha invitato a «dire qualcosa» sul significato dell'esito disastroso delle prove scritte per l'ultima sessione degli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense sostenute dai praticanti salernitani.
Mi sento legittimato, quindi, ad interloquire sull'argomento e - senza presumere, anche per motivi di spazio, di essere esauriente - non posso negare che il fenomeno del cosidetto "turismo dei praticanti", ad onta dei richiami e degli allarmi provenienti da più parti, aveva raggiunto dimensioni tali che nel 2003 fu modificata la previgente disciplina, con l'attribuzione - mediante sorteggio - della correzione dei compiti a Commissioni diverse da quelle innanzi alle quali i candidati erano comparsi. Non si è trattato del solo intervento normativo, perchè si è cercato pure di limitare i «pellegrinaggi» degli aspiranti avvocati anche mediante la fissazione di regole più stringenti per la individuazione della sede presso la quale questi potevano chiedere di sostenere le prove. Devo aggiungere che non si potrà mai avere uniformità di criteri nelle valutazione degli elaborati e, quindi, di risultati, perchè non è possibile presumere che il livello di preparazione degli aspiranti sia uguale in tutta Italia e che le diverse centinaia di esaminatori, componenti le molteplici commissioni, abbiano un unico, identico, metro di giudizio. Le oscillazioni dei risultati, quindi, non sono patologiche, salvo che - come a volte è accaduto anche a Salerno - non si tocchino percentuali di ammessi agli orali di dimensioni assolutamente anomale rispetto alla media nazionale. Ciò premesso, credo che il problema - che certamente esiste - è frutto anche di altri fattori, che non è possibile ignorare. A prescindere dalla maggiore o minore benevolenza degli esaminatori, va ricordato che migliaia di giovani laureati in giurisprudenza considerano l'iscrizione nell'albo degli avvocati come un «parcheggio», nel quale stazionare, in attesa di una sistemazione definitiva. La libera professione non è ritenuta la meta principale della propria scelta di vita, ma una tappa provvisoria, fino a quando non si realizzano le aspirazioni verso altri lidi: magistratura, notariato, carriere statali e così via. E' ovvio che questi aspiranti temporanei-avvocati - o "praticanti virtuali" - limitano il loro apprendistato, studiano solo in funzione delle prove che dovranno sostenere per ottenere un certificato di abilitazione quale lasciapassare per un'attività che possa garantire loro guadagni, pur se modesti, in attesa dell'approdo definitivo alla sistemazione desiderata. Altri giovani, poi, al contatto con le difficoltà di una professione - che esige impegno, sacrificio, studio, assunzione di responsabilità - si rendono conto di avere imboccato una strada che non si sentono di percorrere fino in fondo e la abbandonano per percorsi lavorativi più tranquilli o remunerativi. Altri ancora, presumendo di essere sufficientemente preparati, di avere maturato adeguate esperienze, ritengono di essere pronti a navigare da soli nei mari agitati della professione ed, ottenuta l'abilitazione, abbandonano gli studi nei quali hanno fatto, forse in modo sommario, pratica e vanno incontro a difficoltà che, a volte, li inducono a cambiare "mestiere". L'attività forense, poi, presuppone - oltre alla formazione iniziale minima, che dovrebbe essere acquisita mediante un biennio di pratica in uno studio legale ed attestata dal superamento dell'esame di abilitazione - un continuo perfezionamento culturale: l'evoluzione della legislazione, gli sviluppi della dottrina e della giurisprudenza, il moltiplicarsi dei rapporti sociali e delle loro patologie, l'affermarsi di nuovi valori ed esigenze sociali impongono agli avvocati un costante aggiornamento, per essere pronti a rispondere alle domande della propria clientela. Solo coloro che si pongono questo obbiettivo e lo realizzano sono in condizione di esercitare con dignità la professione forense. La dimostrazione delle difficoltà del percorso formativo e di aggiornamento professionale è dato dalla grande differenza di numero tra quanti sono iscritti negli albi italiani (circa 180.000) e coloro che - esercitando effettivamente l'attività - hanno il requisito per essere iscritti alla Cassa di previdenza forense (circa 120.000). Vi sono, quindi, circa 60.000 cittadini che hanno solo la qualifica di avvocati, ma non svolgono funzioni difensive. Un avvocato con «i capelli bianchi», quindi, che ha alle sue spalle quasi 50 anni di esercizio professionale, non può non esprimere il proprio disappunto per il fenomeno denunziato da Diego De Silva, ma non può condividere la conclusione, da questo tratta, che la bocciatura dell'80% dei candidati all'esame di abilitazione costituisce «un undici settembre dell'avvocatura salernitana», «stende un sospetto uniforme su un'intera classe professionale», segna - come recita il titolo dell'articolo di De Silva - il “disastro di una professione”. Rifiuto di credere che l'opinione pubblica possa accomunare in un generico giudizio negativo tutta una categoria, che pure ha dimostrato - nel suo complesso - un notevole livello di preparazione e che si confronta, senza complessi di inferiorità e non sfigurando, con avvocati di altri, prestigiosi Fori. Non credo sia il caso di fare ulteriori, specifiche indicazioni, ma ritengo sia necessario chiedere di essere giudicati per quanto giorno per giorno si riesce a fare, per le difese che si compiono nelle aule di Giustizia, per gli scritti che si elaborano, per le arringhe che si tengono, per gli esami ai quali si è sottoposti da magistrati, avversari e clienti, per i risultati conseguiti e non per gli esiti negativi di un esame di abilitazione, sostenuto da aspiranti avvocati, forse non adeguatamente preparati alla prova. Edilberto Ricciardi Tratto dal quotidiano “Il Mattino” del 29.06.2006. |