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PIERO OSTELLINO
Le bolle di sapone:l’inchiesta di Potenza e il costume giudiziario. Poiché non è ancora possibile dire se il principe Vittorio Emanuele di Savoia sia finito nei guai perché schiavo del denaro, ovvero per un capriccio della sorte, per il momento tutto quello che mi sembra emergere è, a dispetto della sua formale eccezionalità, il carattere sostanzialmente «convenzionale» dell'intera vicenda. Se non rischiasse di essere una bestemmia, ci sarebbe da dedicarle lo stesso titolo che Hannah Arendt aveva dato al processo Eichmann in Israele: «La banalità del male». Il Savoia - anche quando aveva ammazzato un ragazzo sparacchiando alla cieca dalla sua barca - a me è sempre parso un uomo privo di concreta mens rea , ma anche fondamentalmente incapace di distinguere il bene dal male. Se, ora, dovessi proprio immaginarmelo discutere e trattare con gli altri accusati come gestire l'associazione criminosa della quale è imputato lo vedrei, più che nei panni del leader, chiedere alla moglie Marina che cosa fare. Per uno che avrebbe dovuto essere re non è proprio un'attenuante, bensì, piuttosto, un'aggravante. Ma tant'è, tale mi sembra, sostanzialmente, la storia. E, allora, perché tutto questo baccano intorno alla sua supposta vocazione a favorire la prostituzione? Diciamolo. L'erede della più antica dinastia d'Europa - in particolare, questo stralunato personaggio di cui ora si parla dopo il suo clamoroso arresto - che organizza e dirige un giro di slot machine e di squillo nel mondo delle case da gioco sarebbe stato difficile immaginarselo anche per uno scrittore di fanta-criminalità. Intendiamoci, da parte mia - che, oltre tutto, avrei votato Repubblica al referendum - non è una difesa d'ufficio o, quanto meno, la ricerca di attenuanti nei confronti del figlio dell'ultimo re d'Italia. E' solo un tentativo - senza nulla togliere al merito dell'inchiesta in corso - di far riflettere su un costume giudiziario che ormai fa testo nella storia dell'Italia degli ultimi trent'anni. Nessun altro Paese al mondo, infatti, è stato testimone, quanto l'Italia, di gigantesche e rumorosissime inchieste - che hanno visto, di volta in volta, chiamare a testimoniare il presidente degli Stati Uniti, Clinton, chiedere l'arresto di Arafat, l'incriminazione dell'arcivescovo di Barcellona, del presidente indonesiano Sukarno, del leader comunista russo Zirinowsky, chiamare in causa l'ex presidente Cossiga - poi finite in una bolla di sapone. E' la solita storia. Il ricorso all'arresto clamoroso - era proprio necessario, in questa circostanza? - che provoca l'immediato cortocircuito giudiziario-mediatico, dove ciascuno, procuratori della Repubblica e giornalisti, fa il proprio mestiere, ma insieme finiscono con ingigantire e distorcere agli occhi dell'opinione pubblica la vera natura dei fatti. L'uso della carcerazione preventiva, che perde la sua funzione precauzionale di fronte al pericolo di perpetuazione del crimine o di occultamento delle prove, per diventare una sorta di anticipazione di una condanna che poi, magari, in sede processuale, non verrà. Dunque, se non proprio un pizzico di scetticismo, che in ogni caso rischierebbe di suonare come una pregiudiziale a favore dell'accusato, almeno il richiamo a un sano garantismo e la richiesta di tempi giudiziari rapidi mi paiono più che mai opportuni. Non tanto per salvaguardare l'immagine di un principe, che è e resta, in punto di diritto e di fatto anche in questa occasione, un semplice cittadino italiano, quanto la dignità di un uomo. 18 giugno 2006 |