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GIANCARLO RUSSO FRATTASI
(Avvocato; Delegato al Congresso del Distretto di Bari)
TRAVAGLIATO AVVIO DELLA SECONDA FASE DEL CONGRESSO FORENSE: RIFLESSIONI DI UN DELEGATO
Una riflessione sul prossimo Congresso (o semi-congresso) di Roma 2006 non può che partire da una constatazione alquanto malinconica per chi ricordi l’entusiasmo che a Venezia, nel 1994, salutò la nascita dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura. La costatazione cioè che l’oggetto del Congresso, la posta in giuoco, non è costituita dal tema congressuale proposto (o imposto) dal CNF che ha rivendicato la organizzazione del Congresso medesimo, bensì la esistenza stessa dell’Organismo, la verifica della sua capacità di sopravvivere alla crisi che lo ha colpito e di corrispondere in futuro alle attese che l’avvocatura ha riposto in esso.
E’ bene dunque che a tutti i delegati sia chiaro che il Congresso del settembre 2006 è chiamato a rispondere ad una domanda fondamentale: si vuole o no che l’Organismo continui ad esistere? Sembra una domanda retorica, ma non lo è affatto. Sono molti, soprattutto nelle sedi dell’avvocatura istituzionale (Consigli dell’Ordine, CNF) coloro che ad essa fornirebbero senza esitazione risposta negativa. Sono molti, soprattutto nelle sedi della avvocatura associativa, disposti a fornire una risposta positiva ma condizionata: “sì, ma non questo Organismo”. Ciò è emerso chiarissimamente nel semi-Congresso svoltosi a Milano nel novembre 2005, nel corso del quale una mozione di provenienza ordinistica diretta alla abrogazione pura e semplice dell’OUA è stata bensì respinta; ma senza ovviamente che vi fosse il tempo di discutere, ed eventualmente approvare le varie proposte di modifica statutaria avanzate da chi –associazioni o singoli avvocati- riteneva che l’OUA andasse aperto ad una più estesa partecipazione, per poter rivendicare legittimamente la rappresentanza della intera avvocatura. Quelle mozioni sono state dunque tutte respinte, non per reale dissenso ma perché avrebbero richiesto tempi assai meno ristretti per essere approfondite nel loro contenuto immediato e nelle loro implicazioni. Da novembre 2005 sono passati –mentre scrivo- sei mesi; il semi-Congresso di Roma, considerata la stasi estiva, può dirsi ormai alle porte; e le proposte di modifica dello statuto dell’OA o della sua prassi operativa non mi risultano diffuse da alcuno, nemmeno da coloro che avevano presentate a Milano quelle mozioni poi affrettatamente bocciate dall’assemblea. Viceversa, da parte del CNF e soprattutto dal suo presidente Alpa è stata riaffermata con estrema decisione la necessità che lo stesso CNF si riappropri di una affermata “rappresentanza istituzionale” della avvocatura. Quelle mozioni sono state quindi tutte respinte in blocco. Allora e prima di mettersi in viaggio per Roma, sarà necessario che quanti –per capacità personale o anche soltanto, come nel mio caso, per ragioni anagrafiche- hanno memoria storica, facciano ad essa ricorso per ricordare a beneficio delle nuove generazioni il percorso logico (non quello cronologico o storico, che richiederebbe alcuni volumi) attraverso il quale la avvocatura ha scelto la soluzione OUA (dando ad esso l’attuale conformazione) dopo un travaglio di oltre dieci anni. Dirò subito che non si è trattato di una soluzione ideale bensì di un compromesso, il migliore o meno peggiore raggiungibile in quel momento storico. Comunque, si trattava di un compromesso largamente condiviso, che consentiva di superare la situazione di stallo creatasi e consolidatasi tra l’Avvocatura Istituzionale (Consigli dell’Ordine e CNF) e l’Avvocatura Associativa (le innumerevoli associazioni forensi). A queste Associazioni i Consigli dell’Ordine contestavano, con qualche fondamento, la scarsa rappresentatività (“voi rappresentate solo i vostri iscritti, il cui numero è per di più un dato oscuro e difficilmente certificabile”). Le Associazioni ribattevano: “voi non rappresentate alcuno, perché i vostri iscritti sono tali solo in quanto costretti a farlo per poter esercitare la professione; né vi hanno conferito alcun mandato politico, i vostri compiti essendo solo quelli istituzionali fissati dalla legge”.- Le conseguenze pratiche di questa reciproca delegittimazione erano tragicomiche, a seconda che le si guardasse dal punto di vista degli avvocati o degli osservatori esterni. Se il CNF, o singoli Consigli dell’Ordine o loro strutture associative (Unione delle Curie, Federordini, Unioni di Consigli Regionali), esprimevano al Ministro della Giustizia il loro orientamento in ordine a questioni di interesse dell’avvocatura, immediatamente le varie Associazioni, singolarmente o in gruppo, sollecitavano un incontro con lo stesso Ministro per chiarirgli come solo esse rappresentassero gli interessi degli avvocati, e come i loro orientamenti fossero ovviamente diversi, se non contrari, a quelli espressi dall’Avvocatura istituzionale. Naturalmente la situazione era esattamente analoga, in termini specularmente rovesciati, quando erano le Associazioni a prendere qualche iniziativa politica. In tal caso, era la Avvocatura istituzionale a puntualizzare immediatamente che quelle associazioni rappresentavano solo i propri iscritti (pochi, brutti, e spesso sporchi e cattivi), mentre la totalità dei professionisti si riconosceva nella componente ordinistica. L’esito era sempre lo stesso: i detentori del potere politico decidevano prescindendo totalmente dalle opinioni espresse dall’una e dall’altra componente dell’avvocatura. A meno che, naturalmente, tali opinioni occasionalmente coincidessero, e potessero quindi –in mancanza di contrasti interni- ragionevolmente essere riferite all’intera avvocatura. Il punto critico dunque era questo: poche essendo le occasioni di spontanea convergenza delle varie opinioni degli avvocati (categoria numerosa, disomogenea, operante in realtà socialmente, geograficamente ed economicamente assai dissimili), occorreva far ricorso al vecchio e vituperato sistema democratico, notoriamente il peggiore che ci sia (a parte tutti gli altri). Occorreva cioè che gli avvocati comprendessero la necessità di studiare profondamente i problemi che li riguardavano, confrontassero le loro diverse opinioni, e poi scegliessero: e scegliere significava –non potendosi con la forza ridurre ad unità le idee- contarsi, cioè votare. Significava, per chi fosse risultato in minoranza, accettare che l’opinione maggioritaria, benché da lui non condivisa, fosse portata all’esterno come espressione della volontà politica della intera avvocatura. Fermo ovviamente, per i dissenzienti, il diritto di adoperarsi, ma con attività interna all’avvocatura, affinché le proprie idee potessero in futuro essere condivise e divenire a loro volta maggioritarie. Il punto di rottura con il passato, la originalità rivoluzionaria insita nell’idea costitutiva dell’OUA, la sua stessa ragion d’essere era dunque questa: la accettazione del principio di democrazia e la creazione di una struttura che ne rendesse possibile l’esercizio. E con questo, anticipo qui una conclusione della quale sono fermamente convinto: l’Organismo rappresentativo della volontà politica della Avvocatura (si chiami OUA o con altro nome più eufonico), o sarà basato sul metodo democratico o non sarà. Non ci serve un’altra associazione, sia pure più partecipata (e più costosa) delle altre. Ci serve invece uno strumento che consenta: a)-la circolazione ed il confronto delle idee; b)-la individuazione delle preferenze espresse, su di esse, da una attendibile maggioranza degli avvocati. Perciò, ben venga qualsiasi modifica statutaria che assicuri ai componenti dell’assemblea OUA il massimo consenso della base elettorale (per esempio facendoli eleggere dalla stessa affollatissima platea che elegge i Consigli dell’Ordine). Ben venga qualsiasi modifica che, attraverso un maggior coinvolgimento di Ordini e Associazioni, assicuri all’OUA una continua e ricca circolazione di idee e di proposte operative. Ma alla fine di tutto ciò, quando si tratterà di definire la posizione dell’avvocatura in ordine a questa od a quella opzione politica, occorrerà pur sempre contarsi, cioè votare; ed in questa fase, delicata ma basilare, non potrà essere adottato altro metodo che quello democratico, che si riassume nello slogan "un avvocato, un voto". Anche se a votare non saranno i 180.000 avvocati sparsi per l’Italia, ma i delegati da loro liberamente e consapevolmente investiti di tale responsabilità. *** Al CNF che torna a rivendicare una assai opinabile “rappresentanza istituzionale” dell’avvocatura desidero soltanto ricordare che si tratta di una pretesa storicamente superata, e contraddetta da più di un trentennio di comportamenti concludenti attuati dagli Ordini di tutta Italia, oltre che dallo stesso CNF. Quest’ultimo era infati affiancato da una struttura non prevista dalla legge professionale, ma spontaneamente creata dal sistema ordinistico: la “Unione delle Curie”, che riuniva i Presidenti dei 25 Ordini costituiti presso le sedi di Corte d’Appello, integrati da alcuni Presidenti di Ordini costituiti presso le circoscrizioni di alcuni importanti Tribunali. La Unione delle Curie si riuniva periodicamente, a cadenza mensile o anche più spesso se ve ne era la necessità, per discutere dei problemi dell’avvocatura e della Giustizia in generale; esprimeva pareri e votava mozioni dei quali il Parlamento (forse) ed il CNF (certamente) tenevano conto. Ebbene, questa struttura, che rispondeva alla avvertita esigenza di acquisire il parere qualificato degli operatori di diritto agenti sul territorio nazionale, era ritenuta insufficientemente rappresentativa dalla avvocatura militante, che nel corso del Congresso svoltosi nel 1985 ad Amalfi-Sorrento deliberò di creare una struttura che riunisse non già i soli 25 Ordini distrettuali, ma tutti i 156 (all’epoca) Ordini circondariali, in modo da costituire un più diffuso strumento di rappresentanza democratica della categoria. Fu così costituita la “FEDERORDINI” che cominciò ad operare soppiantando la Unione delle Curie, che infatti poco dopo si sciolse. Nemmeno la Federordini, peraltro, raccolse le adesioni di tutti gli Ordini d’Italia. Ciò dipese da ragioni economiche (anche allora il contributo non era imponibile a coloro che non intendessero farsene carico spontaneamente) oltre che –per alcuni Fori- dal miope desiderio di conservare una autonomia decisionale non subordinata all’accettazione del principio maggioritario. Ma mentre la Federordini faceva –con grande impegno e grande dignità- quel che poteva, il CNF –adeguandosi lealmente alle decisioni assunte dai Congressi Forensi ordinari e straordinari, convocati appositamente sul tema della rappresentanza- ospitava i lavori delle varie commissioni succedutesi per dar vita ad un organismo che traesse la sua legittimazione dal voto di tutti gli avvocati, e fosse in grado di individuarne la volontà maggioritaria, così superando il tradizionale dualismo tra Ordini ed Associazioni, e nel contempo salvaguardando la funzione degli uni e delle altre, senza contrasti o sovrapposizioni. Questi lavori si conclusero con il Congresso straordinario di Venezia 1994, che dette vita all’OUA, col pieno consenso –ribadisco- del CNF che nelle persone di Franzo Grande Stevens e poi Edilbero Ricciardi avevano contribuito in maniera essenziale a tale risultato. Sbagliavano quei CNF nel ritenere che la legge non conferisse loro la “rappresentanza istituzionale” dell’Avvocatura (o quanto meno nel ritenere necessaria una ulteriore struttura che consentisse loro di verificare in maniera rapida ed attendibile, gli orientamenti della “base”)? La risposta dovrà darla il semi-Congresso di Roma. Temo tuttavia che sia già insufficiente il tempo concesso ai delegati per studiare il problema, formarsi una opinione ed elaborare proposte non affrettate e non estemporanee. Spero che almeno Bari mi smentisca Bari, 24-5-2006 Giancarlo Russo Frattasi |