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ROBERTO GERVASO
(storico e giornalista)
ELEZIONI: RIDATEMI LA SERIETA' DEL PASSATO!
È passata una settimana e nessuno mi ha ancora affidato la delicata, delicatissima missione esplorativa di cercare, e trovare, un ragioniere disposto a governare con pieni poteri lo Stivale, o quel che ne resta, per almeno un anno. Nessuno mi ha telefonato, nessuno mi ha scritto, nessuno si è fatto vivo. Un silenzio assordante, come si dice, che non mi aspettavo e che mi fa temere il peggio. Qualcuno obietterà che peggio di così si muore, ma al peggio in Italia non c'è fine. Quando pensiamo di aver toccato il fondo e di poter quindi risalir la china, ci accorgiamo che c'è un altro fondo (e sottofondo). Come le scatole cinesi. In attesa non sappiamo bene di che cosa, aspettando anche noi un Godot che non arriva, rassegniamoci all'ineluttabile. E l'ineluttabile è lo spettacolo, anzi l'avanspettacolo cui assistiamo ogni giorno: a destra, a manca, al centro. La politica è una cosa seria, ma noi, e chi ci governa, con poche, eroiche eccezioni, non siamo seri. E quando ci sforziamo di esserlo, senza convinzione, ma solo per convenienza - convenienza elettorale - facciamo scoppiare dal ridere una platea che, con l'aria che tira, e tira una gran brutta aria, di ridere non ha nessuna voglia. Qualcuno mi darà del qualunquista o del disfattista, ma io non sono né questo né quello. Io leggo i giornali, ascolto la radio, guardo la televisione e quel che leggo, quel che ascolto, quel che vedo, pur suscitando un'infinita ilarità, mi fa arrossire. Non si può trasformare un dibattito elettorale in una rissa continua, in una sguaiata sfida all'ultimo sangue e all'ultimo insulto, in una corrida dove tutti incornano tutti, incornandosi fra loro. La scena politica è affollata di venditori di fumo o di cattivo arrosto, di demagoghi un tanto a battuta, d'illusionisti senza bacchetta magica, o con una bacchetta magica di carta stagnola, che brandiscono cilindri con conigli di pezza o tortorelle di gomma piuma. È una televendita non stop con tante Vanne Marchi che ci promettono la luna nel pozzo, in un Paese dove non ci sono più pozzi e la luna è tramontata da quel dì. I colpi più sono bassi più fanno centro: ma un centro sbagliato. Tizio se la prende con Caio, che se la prende con Sempronio, che si rifà su Filano. Per ricominciare con belle e disgustose varianti. Maggioranza e opposizione si rinfacciano gli stessi errori, le stesse colpe, gli stessi inganni e, alla fine, lo spettatore, cioè l'elettore, non capisce più chi abbia ragione e chi torto. Siamo stufi, arcistufi, non ne possiamo più. E, per consolarci, o averne l'illusione, per non piantare baracca e burattini e non espatriare, riandiamo con la memoria al passato. Un passato non scevro di magagne e di delusioni, ma di gran lunga preferibile al presente. Un passato che si chiama prima Repubblica, di cui la seconda è la pulcinellesca e arlecchinesca caricatura. Io rivoglio - quante volte li ho invocati - De Gasperi, Einaudi, Nenni, La Malfa, Malagodi, Saragat, Almirante, Togliatti. Sì, anche il «Migliore», come lo chiamavano i compagni per la sua canina fedeltà a «Baffone». Io rivoglio governanti, o aspiranti tali, che non si prendano a pesci, e nemmeno a torte, in faccia, che espongano con pacatezza, ponderatezza, senza iattanza, ma anche senza sufficienza le loro idee e i loro programmi. Idee e programmi che gli elettori giudicheranno, premiandoli con il voto o bocciandoli con il pollice verso. Io rivoglio statisti, non populisti. Anche se, nelle piazze, una piccola dose, ma piccola, di demagogia, non guasta. Io non ne posso più di sberleffi, di cachinni, di minacce, di querele annunciate e mai presentate, di colpi di clava e bombe molotov oratorie. Io non ne posso più di promesse fatte e non mantenute, di giuramenti traditi, di dichiarazioni d'amore ipocrite e strumentali. Io voglio facce pulite, facce oneste, facce leali, anche se abbronzate. Io voglio uomini, non omuncoli o superuomini. Per questo proponevo, con Guglielmo Giannini, un ragioniere capo del governo «pro tempore», che avrei chiamato volentieri re o imperatore, ma anche zar o kaiser. Io voglio, o vorrei, tanti piccoli De Gasperi, tanti piccoli Einaudi, tanti piccoli Saragat (e qualcuno c’è) che, in attesa del ragioniere, prendano, non dico in pugno (sarebbe chiedere troppo), ma in mano la situazione. Prima che questa precipiti, più di quanto già non sia precipitata. Io voglio, cioè vorrei, che la politica tornasse a essere una cosa seria. O un po’ più seria di quella che ho davanti agli occhi. E che non vedo l'ora di buttarmi alle spalle. Roberto Gervaso tratto dal quotidiano “Il Mattino” del 12/02/2006) |