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* CORTE COSTITUZIONALE: CANCELLATA LA NORMA DELLA REGIONE CAMPANIA CHE CONSENTIVA ALL'AVVOCATURA REGIONALE DI PATOCINARE ENTI STRUMENTALI E SOCIETA' PARTECIPATE. IL CASO DELLA ASL SALERNO.
Sezioni: PRIMA FILA
Autore Post E.Tortolani - tratto da IPSOA
Data di pubblicazione 24/05/2013



E' costituzionalmente illegittima la norma della Regione Campania, che abilita l'avvocatura regionale a svolgere attivita' di consulenza e a patrocinare in giudizio gli enti strumentali della Regione e le societa' il cui capitale e' interamente sottoscritto dalla Regione.

Il caso - Il TAR per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma della Regione Campania che abilita l’avvocatura regionale a svolgere attività di consulenza e a patrocinare in giudizio gli enti strumentali della Regione e le società il cui capitale è interamente sottoscritto dalla Regione, consentendo, a tale scopo, la stipula di convenzioni tra la Giunta regionale e detti enti (art. 29 l.r. n. 1 del 2009).

Nel giudizio principale, alcuni funzionari dell’avvocatura regionale avevano chiesto l’annullamento della delibera della Giunta regionale, che aveva autorizzato l’avvocatura regionale a stipulare detta convenzione (nella specie, con l’ASL di Salerno).

Secondo il TAR, detta norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto violerebbe le disposizioni di principio della legge statale in materia d’incompatibilità nell’esercizio della professione forense da parte di avvocati dipendenti di enti pubblici.

Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituiti i ricorrenti nel processo principale ed il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, facendo proprie le censure proposte dal rimettente.

La Regione Campania, costituitasi anch’essa in giudizio, ha invece eccepito l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.

La decisione della Corte - La Corte costituzionale, con sentenza 22 maggio 2013, n. 91, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata.

La premessa dalla quale muove la pronuncia è che la norma statale (art. 3, r.d.l. n. 1578 del 1933) stabiliva che l’esercizio della professione di avvocato «è incompatibile con qualunque impiego o ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato […] ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica» (comma 2), prevedendo una deroga per gli avvocati afferenti agli uffici legali degli enti pubblici, solo «per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera» e a condizione che siano iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali (comma 4).

Siffatta deroga è stata interpretata restrittivamente dalla Corte di cassazione, negando che potessero essere ritenuti “propri” dell’ente pubblico datore di lavoro le cause e gli affari di un ente diverso, dotato di distinta soggettività.

La recente riforma dell’ordinamento della professione forense non ha innovato detto regime, confermando che gli avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla «trattazione degli affari legali dell’ente stesso», a condizione che siano incardinati in un ufficio legale stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva dello svolgimento di tali funzioni (artt. 18, 19 e 23, l. n. 247 del 2012) e, quindi, tale jus superveniens non ha inciso sul contenuto delle censure proposte dal TAR e non ha impedito la decisione nel merito della questione.

Posta questa premessa, ne è scaturita logicamente conseguenziale la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata.

La giurisprudenza costituzionale è, infatti, consolidata nell’affermare che la competenza legislativa concorrente delle regioni nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle stesse la sola disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (tra le più recenti, sentenze n. 300, n. 132 e n. 131 del 2010).

Alla luce di tale orientamento e del contenuto della disciplina dell’incompatibilità, risulta palese che la norma regionale, come precisato dalla pronuncia, costituisce frutto di un principio fondamentale della materia e, appunto per questo, non può costituire oggetto di regolamentazione da parte della Regione. In contrario, non è valso evocare che il legislatore statale ha previsto alcune ipotesi nelle quali gli avvocati di enti pubblici possono prestare la propria attività a favore di enti diversi da quello di appartenenza.

La fissazione dei limiti dell’incompatibilità nell’esercizio della professione legale rientra, infatti, nell’ambito della competenza dello Stato e bene questi può conformarla nel modo ritenuto più opportuno, nell’esercizio non irragionevole della discrezionalità allo stesso spettante.

Al riguardo, va quindi segnalato che la Corte ha ritenuto non priva di ragionevolezza la finalità addotta a giustificazione della norma (indicata nella realizzazione di risparmi di spesa), ma ha sottolineato come di essa possa farsi carico il legislatore statale, non certo quello regionale, appunto perché privo di competenza a regolamentare detto profilo
(Sentenza Corte Costituzionale 22/05/2013, n. 91)


(linka IPSOA: http://www.ipsoa.it/Articoli/link.aspx?ID=1129032&linkparam=In%20Primo%20Piano )
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