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* Il malato immaginario: l'avvocatura e le società di capitali tra professionisti * * di Nicoletta Giorgi, Tesoriere Nazionale Aiga
A partire dallo scorso anno il Legislatore ha elaborato una serie di interventi che hanno interessato l’avvocatura, da sempre e dai più definita come conservativa, costringendola a confrontarsi con una nuova immagine di sé, un nuovo vestito che l’Europa, prima ancora che il suo Paese, le ha chiesto di indossare. Questo new look propone all’avvocatura di abbandonare l’idea nostalgica di un ancien regime individualista e di assumere per la prima volta sovrastrutture di natura economica: le società di capitali, anche con la previsione di socio esterno. Il Consiglio di Stato, chiamato a dare il proprio parere sullo schema di regolamento in materia di società per l’esercizio di attività professionali, in data 05 luglio ha fatto proprie alcune delle preoccupazioni sollevate dai professionisti evidenziando la necessità di introdurre maggiori requisiti di moralità e onorabilità per i soci investitori nonché prevedendo, in ipotesi di società multidisciplinari, l'applicazione di particolari regole deontologiche correlate ai settori delle singole specifiche attività e non solo di quella prevalente. Ha altresì accentuato l’attenzione sulla tutela del cliente prevedendo a suo favore la consegna dell’elenco di tutti i soci, professionisti e non, consentendo a monte la verifica di eventuali conflitti di interesse. Al di là di questi, e altri piccoli correttivi, il via libera sembra quindi concesso. L’avvocatura dovrà così omologarsi alle imprese nel mercato dei servizi? A questa domanda la risposta più frequente è che la professione dell’avvocato, costituzionalmente prevista, si distingue da altre professioni per la peculiare funzione sociale, tanto da rendere necessaria una disciplina ad hoc. La risposta è condivisibile ma non può essere esaustiva per archiviare l’argomento. Le domande da porsi sono piuttosto: la classe forense trae vantaggi dalla nuova possibilità di organizzarsi in società di capitali? L’indipendenza e l’autonomia dell’avvocatura sono davvero messe in pericolo dalla previsione di srl con socio di mero capitale (oggi a seguito della legge di conversione n° 27/2012 con al più il 33,3% delle quote)? Quanti avvocati costituiranno delle società di capitali con un socio non professionista? Da un punto di vista fiscale: se il socio di una srl ha una partecipazione non qualificata paga una ritenuta alla fonte del 12,5 % (società sostituto d'imposta) sul dividendo erogato dalla società. Se la partecipazione è qualificata, solo il 40% del dividendo diventa l'imponibile fiscale del socio, sul quale verranno applicate le aliquote in base agli scaglioni di reddito. Ad oggi per il lavoro autonomo l’imposta si calcola sulla base imponibile che è data dal reddito complessivo della persona fisica al netto degli oneri deducibili. L’aliquota minima di imposta è pari al 23% per un reddito fino a € 15.000,00! Sono calcoli semplici, anche per gli avvocati meno avvezzi ai conti, per capire che forse qualche margine di vantaggio potrebbe esserci. Per non compromettere la contribuzione previdenziale si potrebbe prevedere che gli utili prodotti dalla società, anche quelli ripartiti al socio investitore, siano considerati redditi da attività professionale e determinati secondo i criteri di cassa come per i professionisti che esercitano la professione in modo individuale. Questo aspetto, inoltre, allontanerebbe investimenti prettamente speculativi. In verità, la paura del socio di mero capitale si concretizza quando questo si identifica per lo più in banche e assicurazioni per il timore di un gioco al ribasso delle competenze economiche a loro richieste, aspetto però purtroppo già avvenuto anche senza le società di capitali. Se questo fosse un primo e vero ostacolo lo si potrebbe superare prevedendo che il socio avvocato non possa assumere mandati professionali in favore del socio investitore, di società controllate, controllanti o collegate ad esso. Propongo, pertanto, ulteriori riflessioni. Alcuni accorgimenti previsti per legge consentirebbero poi un adattamento di questo strumento alle peculiarità della nostra categoria professionale, anche al fine di conservarne libertà e indipendenza: il divieto di delega del diritto di voto al socio investitore e di patti parasociali; le riserve di competenza ai soci professionisti nelle delibere assembleari; il rispetto delle norme di trasparenza per scongiurare infiltrazioni che compromettano il decoro e il rispetto della professione (vedi codice antimafia); la clausola di gradimento a favore del professionista in caso di cessione della quota del socio investitore ed il diritto di prelazione in caso di cessione della quota degli altri soci. Oggi l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocatura rischiano di venir meno, sempre che non siano già compromessi, anche per le grosse difficoltà economiche che oggi la categoria, e non solo nelle fasce più giovani, sta vivendo. Prova ne siano le recenti statistiche diramate dalla Cassa di Previdenza le quali evidenziano un continuo calo del reddito pro-capite, in persistente discesa dal 2007, con una perdita di ricchezza dell’avvocato medio italiano del 12% (comprensivo dell’inflazione) nel triennio 2008-2010. Perché allora la società di capitali con socio non professionista non può essere intesa come uno strumento per trovare liquidità? La riforma dell’avvocatura, solo perché è stata iniziata e portata avanti senza prima interrogare ed interessare il destinatario delle riforme, non può portare quest’ultimo ad una cieca negazione di tutto quanto ne costituisce il contenuto. A modesto avviso di chi scrive, l’avvocatura non può e non deve opporsi al nuovo tout court salvo non voglia rischiare di assumere le vesti del personaggio di Moliere convinto di essere ammalato proprio da chi lo doveva guarire. |