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* * * I fantasmi a volte ritornano. Specie se li rievochiamo, la suggestione diventa forte. Anche perchè le esperienze passate hanno lasciato il segno, con la soppressione del Tribunale di Sala Consilinae e di alcune importanti sezioni come quella di Eboli. E' una prestigiosa associazione di avvocati, la Camera Penale Salernitana, che ha rispolverato nei giorni scorsi lo spettro di nuove soppressioni di uffici giudiziari nella provincia di Salerno, già colpita nel 2012 dalla "epocale" qunto nefasta riforma completata dalla Ministra Severino. Per la verità non si tratta di una novità assoluta,...
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** Guido Alpa, Sulle riforme della giustizia si sfiora il grottesco * * * Intervento su ItaliaOggi 30/12/2011*
Sezioni: FOCUS
Data di pubblicazione 01/01/2012

Un tempo la volatilità delle disposizioni era propria del diritto tributario, et pour cause. Oggi si è estesa a tutti i settori dell’ordinamento.
Ma un conto è la modificazione delle regole di diritto sostanziale, altro conto quelle che sono dirette a disciplinare il processo, cioè le modalità per far valere dinanzi al giudice un diritto o un interesse.
Il codice del processo amministrativo è già stato corretto tre volte in pochi mesi. E sono più di trenta le modificazioni al codice di procedura civile succedutesi dal 1940 ad oggi, di cui almeno la metà si è registrata negli ultimi anni.
Sono regole introdotte per così dire alla spicciolata, fuori da ogni logica di sistema, con l’assillo di migliorare la situazione, senza soppesarne appieno l’impatto e le conseguenze.
Anche per un avvocato è difficile inseguire gli interventi a raffica diretti a modificare questa o quella norma del codice di procedura civile: il succedersi di decreti, leggine, o addirittura strumenti di normazione semplificata rende poco decifrabile la situazione giorno per giorno. Se è vero che l’idea di “codice” consegnataci dalla tradizione ottocentesca non è più adatta alle società postmoderne, è anche vero che i codici, a differenza delle altre fonti del diritto, sono destinati ad una vita tendenzialmente lunga.
Se è vero che oggi non si può più parlare di sistemi ma di problemi, non si può però abbandonare un principio cardine delle regole di diritto, cioè la coerenza. Solo così le regole giuridiche potranno continuare ad assicurare la certezza del diritto e orientare adeguatamente gli operatori - che tutelano i diritti dei cittadini - nello svolgimento del loro lavoro. Solo così i cittadini potranno avere fiducia nelle istituzioni, e avvalersi dei loro diritti. Questo modo di procedere mette in gioco un diritto fondamentale come l’accesso alla giustizia: se si cambiano le regole in corso (le norme processuali hanno una vigenza immediata) e le si cambiano ad ogni stagione aumenta la confusione e diminuisce l’affidabilità.
Ma la situazione è ancora più grave quando al cambiamento delle regole si assomma il cambiamento del sistema di amministrazione: si sopprimono le sedi del giudice di pace, privando così i cittadini della giustizia di prossimità, ma non si sa come e dove saranno collocati i giudici onorari conservati nelle loro funzioni, e prorogati nel loro incarico. Né si sa come potranno essere ospitati negli spazi angusti degli uffici giudiziari i milioni di fascicoli che essi si porteranno al seguito, e, peggio ancora, i dipendenti amministrativi che li coadiuvano.
Oltre alle regole e all’amministrazione si cambiano anche le modalità con cui assicurare la continuità del procedimento: da poco si era introdotto il “calendario del processo” concordato dal giudice con i difensori; oggi si è pensato che sia l’impulso di parte, portato alle estreme conseguenze, a dover stabilire se un processo continuerà o si estinguerà. La parte ha l’onere di confermare con riferimento ai giudizi di appello e di cassazione attualmente pendenti se intende insistere nella richiesta di tutela. Ma perché mai sottoporre a questo aggravio una parte che ha già compiuto tutte le iniziative e gli atti idonei a ottenere giustizia? Se ci fossero state le condizioni, è evidente che essa avrebbe promosso o acceduto ad una transazione e si sarebbe tolta il pensiero senza necessità di alcuna sollecitazione.
Le nuove norme si fregiano pomposamente del titolo di “leggi di riforma della giustizia”. Si susseguono, si accavallano, ma solo una cosa è certa: non finiranno qui, e gli operatori ne apprenderanno l’esistenza dai giornali, dalla Gazzetta Ufficiale, ma non per iniziativa del Governo o del Parlamento.
Il Governo tace, il Parlamento acconsente, i cittadini subiscono. Che altro potrebbero fare quando tutti questi provvedimenti sono presentati come necessari per uscire dal baratro della crisi e come richiesti dall’Unione europea?
Ciascuno poi ha la propria ricetta per migliorare la situazione e per risolvere i mali della giustizia.
La ricetta che costa meno è quella che (apparentemente) presenta il minor costo, cioè modificare testi di legge. Ma è un rimedio peggiore del male: il costo è altissimo, perché la confusione genera errori e inceppa la macchina anziché olearla, e l’inaffidabilità genera affievolimento della credibilità dello Stato a cui spetta, nel canone occidentale, l’amministrazione della giustizia. Un’altra ricetta tende a scoraggiare l’accesso alla giustizia: il cittadino deve subire l’ingiustizia, assistere impotente alla violazione dei propri diritti e dei propri interessi, perché il sistema è diventato troppo costoso, e lo Stato non ce la fa.
Siccome si deve trovare un capro espiatorio, la categoria che più si presta alla gogna è quella degli avvocati: gli avvocati ormai sono indicati come la causa di ogni male, compreso il ritardo dello sviluppo economico. Nessuno pensa alle colpe del legislatore che, in spregio alle norme costituzionali, aumenta i costi per accedere alla giustizia, sicché, per effetto degli ultimi provvedimenti, solo chi è più ricco oggi può ricorrere al giudice naturale, in violazione del principio di eguaglianza.
Un’altra ricetta considera i risparmi della spesa: ma anziché controllare voce per voce, ritiene sia preferibile annullare la stessa fonte della spesa, che individua nelle sezioni distaccate, nei tribunali sub-provinciali, e nei giudici di pace. La giustizia di prossimità cancellata con un rigo di penna fa impressione. Chi la sostituirà?
Un’altra ricetta è dedicata alla riduzione dei modelli processuali: dai (circa) trenta con i nuovi provvedimenti si dovrebbero ridurre a tre; peccato che quegli stessi provvedimenti li abbiano aumentati a trentacinque.
Un’altra ricetta si studia di eliminare i gradi di giudizio: secondo i costituzionalisti la Costituzione non ne prevede tre, ma uno nel merito e uno di legittimità. Allora si è pensato di sopprimere il grado di appello, oppure di trasformare il giudizio di appello in giudizio di legittimità, riservando alla Cassazione solo determinate tipologie di ricorso. Si dimentica così che solo il 15% delle sentenze di primo grado sono appellate, e solo il 15% delle sentenze di appello sono impugnate in Cassazione. E si dimentica che una sentenza d’appello su tre è riformata in Cassazione.
Un’altra ricetta studia di ridurre i tempi del processo riducendo il testo delle sentenze: ciò che importa è il dispositivo, sapere se si è vinta o se si è persa la causa; la motivazione può attendere (o addirittura essere fornita a pagamento). Ma anche qui ci si scontra con la Costituzione, un piccolo dettaglio che però ha garantito i cittadini contro abusi e soprusi, almeno fino ad oggi. Anche la motivazione delle sentenze è un ostacolo alla riduzione del debito pubblico e alla ripresa economica?
Stiamo sfiorando il grottesco, ma nessuno se ne accorge, perché i provvedimenti non sono discussi e studiati tutti insieme, con le categorie interessate e con un pubblico dibattito. Spuntano come i funghi, occhieggiano tra una riga e l’altra della Gazzetta, e poi è difficile riconoscerli perché si presentano con le formule esoteriche del rinvio, della modifica, della soppressione di commi, dell’aggiunta di mozziconi di parole.
Si possono raccogliere in una corbeille: certo, ci sono funghi sani (come le regole sul sovrindebitamento del consumatore), ma tutti gli altri appaiono funghi velenosi anche se si presentano sotto le sembianze dei funghi più gustosi.
Tutte queste ricette sono suggerite da cuochi di eccezione, che però seguono, come avviene nella migliore tradizione culinaria, la loro propria filosofia. Tra loro non sono coordinati, né le ricette sono tra loro ricompattate.
Le ricette sono poi gelosamente custodite dai loro creatori, anche quelle che hanno già trovato un contenitore normativo (ormai non si può più parlare di leggi, attesa l’approssimazione, l’incuria, l’asistematicità dei provvedimenti emanati) e dovrebbero dunque essere pubbliche. Ma il giurista scopre che si tratta di norme “evirate” perché incomplete, che non si possono interpretare e non si possono applicare con i canonici criteri ermeneutici. Insomma, non si può andare avanti così: le riforme non si possono introdurre con il contagocce, e debbono essere studiare con rigore e discusse con gli operatori con umiltà. E poi occorre anche monitorarne gli effetti: quelle fin qui introdotte hanno avuto effetti benefici? Non mi riferisco solo alla conciliazione obbligatoria, ma alle regole dell’ultimo quinquennio. Che studi si sono compiuti per accertarne l’efficienza?
Anche se dovessimo accedere a una logica di puro mercato e aggrapparci a “Doing Business” come la bussola per introdurre qualsivoglia cambiamento, rimane il fatto che i risultati di queste scelte e di queste logiche si rivelano del tutto inadeguati perché, come si legge nel rapporto del 2012, la situazione italiana è peggiorata, visto che il nostro Paese ha perso tre posti in graduatoria.


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