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* AL PADRE-AVVOCATO RICONOSCIUTA L'INDENNITA' DI MATERNITA' IN CASO DI ADOZIONE E PATERNITA' NATURALE * Tribunale di Termini Imerese - Sentenza 2-4 novembre 2009 n. 1290 (Giudice Rezzonico; Catania contro Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense).
Al padre-avvocato l'indennità di maternità in caso di adozione e paternità naturale. Tribunale di Termini Imerese - Sentenza 2-4 novembre 2009 n. 1290 (Giudice Rezzonico; Catania contro Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense) LA MASSIMA Professioni - Avvocati - Indennità di maternità - Sentenza Corte costituzionale - Attribuzione - Sia alle adozioni e sia alla paternità naturale - Efficacia immediata. (Corte costituzionale, sentenza 385/2005; Dlgs 151/2001, articoli 70 e 72) La sentenza 385/2005 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, attribuita solo a quest'ultima, deve essere intesa come riferita sia alle adozioni che alla paternità naturale. Pertanto, al lavoratore padre spetta l'indennità di maternità in alternativa alla madre, non solo in caso di adozione ma anche in caso di maternità naturale. Con sentenza 2 novembre 2009 n. 1290 il tribunale di Termini Imerese ha dichiarato l'immediata efficacia della sentenza della Corte costituzionale, per la cui applicazione non è necessario alcun intervento legislativo. LA GIURISPRUDENZA RICHIAMATA Lavoro (tutela del) - Liberi professionisti - Indennità di maternità in caso di minori adottati o in affidamento preadottivo nei primi tre mesi dall'ingresso in famiglia - Limitazione alla madre adottiva, con esclusione del padre adottivo - Ingiustificata disparità di trattamento tra figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti - Violazione del principio di tutela della famiglia e del minore - Illegittimità costituzionale in parte qua. (Dlgs 151/2001, articoli 70 e 72; Costituzione, articoli 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31) Sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151, nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, attribuita solo a quest'ultima. La previsione che solo alle madri libere professioniste iscritte a un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza, e non anche al padre libero professionista, sia riconosciuta un'indennità di maternità (articolo 70), estesa dall'articolo 72, comma 1, all'ipotesi di adozione o affidamento, laddove l'articolo 31 del medesimo decreto legislativo n. 151 del 2001 stabilisce, per il caso di adozione o affidamento, che il congedo di maternità di cui ai precedenti articoli 26, primo comma, e 27, primo comma, nonché il congedo di paternità di cui all'articolo 28 spettano, a determinate condizioni, anche al padre lavoratore, rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore, apparendo discriminatoria l'assenza di tutela che si realizza nel momento in cui, in presenza di un'identica situazione e di un medesimo evento, alcuni soggetti si vedono privati di provvidenze riconosciute, invece, in capo ad altri che si trovano nelle medesime condizioni. Rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un'adeguata tutela. Corte costituzionale - Sentenza 11-14 ottobre 2005 n. 385 Previdenza e assistenza sociale - Crediti assistenziali maturati anteriormente al 31 dicembre 1991 - Sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro - Lamentata omessa previsione in ordine agli interessi legali e al risarcimento del danno - Enunciata disparità di trattamento rispetto alle prestazioni previdenziali con incidenza sulla garanzia assistenziale - Accertata lesione del principio di razionalità - Illegittimità costituzionale parziale. (Cpc, articolo 44; Costituzione, articoli 3 e 38, comma 1) Posto che per i crediti previdenziali di qualsiasi entità, compresi quelli relativi a pensioni di elevato ammontare, si attribuisce al titolare una tutela speciale contro i danni cagionati da mora debendi, estendendo in via analogica la disciplina dei crediti di lavoro (articolo 429, comma 3, del Cpc), a maggior ragione, per il principio di razionalità e di meritevolezza la medesima tutela deve essere concessa ai crediti per le prestazioni assistenziali previste dal primo comma dell'articolo 38 della Costituzione in quanto queste hanno lo scopo di garantire ai cittadini inabili e bisognosi il minimo per vivere, mentre il secondo comma dello stesso articolo garantisce non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari di pura sussistenza materiale, bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita dei lavoratori. Pertanto, riguardo ai crediti relativi a prestazioni di assistenza obbligatoria, per i quali (come nei casi di specie) la fattispecie della responsabilità del debitore per ritardato pagamento si sia perfezionata anteriormente al 31 dicembre 1991 (per le fattispecie venute in essere successivamente trovando applicazione la nuova normativa dell'articolo 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991) va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 442 del Cpc nella parte in cui non prevede, quando il giudice, in caso di inadempimento, pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro, il medesimo trattamento dei crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale in ordine agli interessi legali e al risarcimento del maggior danno sofferto dal titolare per la diminuzione di valore del suo credito. (Si veda, per l'estensione della disciplina dell'articolo 429, comma 3, del Cpc ai crediti previdenziali, la sentenza 156/91, e per le finalità della garanzia assistenziale la sentenza 31/86. Corte costituzionale, sentenza 19-27 aprile 1993 n. 196/93 Motivi della decisione L'art. 45 co. 17 della L. 18/6/2009 n. 69, entrata in vigore il 4/7/2009, ha sostituito il n. 4) dell'art. 132 co. 2 c.p.c., prevedendo Che la sentenza debba contenere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione», mentre non è più necessaria l'esposizione dello svolgimento del processo. La norma, inoltre, si applica anche ai processi di primo grado in corso alla data della sua entrata in vigore, alla luce dell'espressa disposizione in tal senso dell'art. 58 co. 2 L. 69/09. Per queste ragioni la presente sentenza non contiene lo «svolgimento del processo». Il ricorrente, libero professionista e coniuge di casalinga, chiede il riconoscimento dell'indennità di maternità ai sensi dell'art. 70 D.Lgs. 151/01, sostenendo che il proprio diritto nasce dalla sentenza n. 385 del 14/10/2005, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della predetta disposizione nella parte in cui non prevede che l'indennità di maternità spetti al padre in alternativa alla madre, attribuita solo a quest'ultima. Ribatte l'Ente convenuto che la sentenza della Corte Costituzionale riguarda il solo caso del libero professionista padre adottivo e che essa ha portata programmatica e non anche precettiva. Non è fondata l'affermazione della Cassa resistente secondo cui «la situazione di disparità, cui fa riferimento la Corte Costituzionale, riguarda esclusivamente i casi di adozione e di affido, e non di parto naturale» (terza pagina della memoria di costituzione). Una tesi siffatta presenta manifesti profili di irragionevolezza. Neanche con il più potente microscopio giuridico si potrebbe mai scorgere una ragione plausibile per cui un padre biologico - eventualità a tutt'oggi di stragrande prevalenza statistica e comportante un vincolo di sangue di considerevole impatto, quanto meno, genetico - debba essere discriminato e meno tutelato rispetto ad un padre adottivo. È indiscutibile che il giudizio di merito da cui si originò la questione di costituzionalità decisa dalla sentenza n. 385/05 riguardasse un libero professionista affidatario in preadozione di un minore, ma non è vero che la portata della pronuncia sia limitata a tale fattispecie. Il dispositivo della sentenza dichiara «l'ilegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151... nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, attribuita solo a quest'ultima». La dichiarazione di illegittimità costituzionale concerne entrambi gli articoli di legge indicati, non il solo art. 72, ed ai sostantivi «padre» e «madre» non segue alcuna specificazione che consenta di limitare la portata della pronuncia ai soli casi di adozione ed affido. D'altro canto, la questione di costituzionalità nasceva proprio e soltanto dal riconoscimento del beneficio da parte dell'art. 70 (esteso dall'art. 72 ai casi di adozione ed affido) alla sola madre - evidentemente naturale - libera professionista e non anche al padre libero professionista. Era questa la norma della cui legittimità costituzionale il giudice a quo aveva fondatamente dubitato. Che poi questa norma dovesse applicarsi, in quella fattispecie concreta, ad un caso di adozione ed affido, in forza dell'estensione operata dall'art. 72, non spostava i termini del problema, che erano appunto quelli della disparità di trattamento del padre (qualsiasi padre, naturale o adottivo che fosse) libero professionista rispetto sia alla madre libera professionista, sia al padre lavoratore subordinato. La pronuncia della Corte, quindi, nel riferirsi ad un caso di affido in preadozione, comprende, e non esclude, il caso della paternità naturale, esattamente come il più comprende, e non esclude, il meno. Dispositivo a parte, è l'intera motivazione della sentenza che non consente dubbi di sorta. In essa si legge: «Occorre garantire un'effettiva parità di trattamento fra i genitori - nel preminente interesse del minore - che risulterebbe gravemente compromessa ed incompleta se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un'organizzazione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela della prole, ammettendo anche il padre ad usufruire dell'indennità di cui all'art. 70 del dlgs. n. 151 del 2001 in alternativa alla madre. In caso contrario, nei nuclei familiari in cui il padre esercita una libera professione verrebbe negata ai coniugi la delicata scelta di chi, assentandosi dal lavoro per assistere il bambino, possa meglio provvedere alle sue esigenze, scelta che, secondo la giurisprudenza menzionata di questa Corte, non può che essere rimessa in via esclusiva all'accordo dei genitori, in spirito di leale collaborazione e nell'esclusivo interesse del figlio (sentenza n. 179 del 1993). La violazione del principio di uguaglianza appare ancor più evidente se si considera che il legislatore ha riconosciuto tale facoltà ai padri che svolgano un'attività di lavoro dipendente: il non aver esteso analoga facoltà ai liberi professionisti determina una disparità di trattamento fra lavoratori che non appare giustificata dalle differenze, pur sussistenti, fra le diverse figure (differenze che non riguardano, certo, il diritto a partecipare alla vita familiare in egual misura rispetto alla madre), e non consente a questa categoria di padri-lavoratori di godere, alla pari delle altre, di quella protezione che l'ordinamento assicura in occasione della genitorialità, anche adottiva. Appare discriminatoria l'assenza di tutela che si realizza nel momento in cui, in presenza di una identica situazione e di un medesimo evento, alcuni soggetti si vedono privati di provvidenze riconosciute, invece, in capo ad altri che si trovano nelle medesime condizioni». Il ragionamento della Corte abbraccia tutte le ipotesi di insorgenza di un rapporto genitori-figli (la genitorialità di cui parla, con orrendo neologismo, la Consulta) e l'inciso «anche adottiva», appositamente rimarcato in grassetto da questo giudice, evidenzia con chiarezza adamantina come la Corte abbia inteso estendere a questa particolare forma di filiazione tutta ed esclusivamente giuridica i principi di tutela e parità di trattamento che caratterizzano la paternità e la famiglia biologica. Come si diceva, insomma, il più comprende il meno. La resistente nega poi immediata efficacia precettiva alla sentenza n. 385/05. Essa andrebbe inquadrata fra le sentenze «additive di principio», che non sono idonee a determinare alcuna innovazione normativa nell'ordinamento, non hanno «efficacia autoapplicativa», necessitando di un intervento legislativo successivo, tale da rendere operativa la pronuncia della Corte Costituzionale. Questa tesi si basa sul periodo conclusivo della motivazione della sentenza n. 385/05 che di seguito si riporta: «Nel rispetto dei principi sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un'adeguata tutela». Inutile interrogarsi sugli intendimenti della Corte, che, contrariamente al dispositivo della sentenza, non sono affatto vincolanti. In concreto, l'accoglimento della tesi di parte resistente circa la pretesa «inefficacia autoapplicativa» della sentenza n. 3 85/05 avrebbe conseguenze assurde. Da un lato, la Corte afferma a chiare lettere il principio di eguaglianza sia fra i due genitori, sia fra padri lavoratori autonomi e dipendenti (ai fini, è chiaro, della tutela del figlio, naturale o adottivo); dall'altro lato, al momento di tradurre in atto questo principio di eguaglianza e quindi di garantire agli uni (padri) quanto già previsto per le altre (madri), il giudice dovrebbe arrestarsi dinanzi alla mancata emanazione di specifiche norme da parte del legislatore, norme che potrebbero non intervenire mai, così perpetuando la situazione di ingiustificata disuguaglianza e discriminazione, dichiarata incostituzionale dalla Corte. Questa stridente contraddizione è agevolmente superabile sol che si mettano da parte astrusi bizantinismi interpretativi per lasciare spazio ad una buona dose di sano pragmatismo di stampo anglosassone. Allorché la norma costituzionale rimetta al legislatore l'adozione di norme volte alla tutela di determinati valori o alla regolamentazione di determinate materie, la sentenza della Corte Costituzionale che rilevi «l'inadempimento» del legislatore non può comunque sostituirsi a quest'ultimo. La Corte, come qualsiasi altro soggetto diverso dal Legislatore, non può inventarsi modalità, tempi, forme e contenuti di quella tutela o di quella regolamentazione, non può colmare il vuoto normativo. Ma quando una tutela vi sia e la Cotte riconosca illegittima, perché non conforme al principio di eguaglianza o comunque ad altri principi costituzionali, l'esclusione di determinati soggetti da quella tutela, la sentenza ha necessariamente efficacia precettiva, perché, nel dichiararlo non conforme a Costituzione, automaticamente rimuove quel limite, abbatte il muro di confine che impediva alla disciplina normativa di espandersi verso soggetti o settori altrimenti non rientranti nelle sue disposizioni. Non c'è e non si crea affatto un vuoto normativo. È stato esattamente affermato che: «la Corte cost. ha una funzione giurisdizionale e non legislativa e, con le pronunce additive, propriamente non crea norme nuove, ma (in genere in applicazione del principio d'uguaglianza) libera un contenuto presente in nuce nella norma impugnata». (Principio enunciato con riferimento a Corte cost. n. 206 del 1988, dichiarativa della illegittimità costituzionale dell'art. 135, comma 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965). Cassazione civile, sez. lav., 21 gennaio 1998, n. 536. Qualunque sia stato il pensiero della Corte Costituzionale al riguardo, non occorre nessun intervento legislativo per tradurre in atto il principio di eguaglianza affermato dalla sentenza n. 385/05; basta estendere ai padri liberi professionisti quanto previsto per le madri libere professioniste. È l'ovvia e semplice conseguenza dell'affermazione dell'eguaglianza fra madri e padri lavoratori. Il ricorso va perciò accolto, anche in relazione al quantum, correttamente determinato con un mero calcolo matematico, sulla base dei dati certi indicati nel secondo comma dell'art. 70 D.Lgs. 151/01, e quindi del reddito dichiarato nel 2005, essendo il figlio del ricorrente nato nell'ottobre 2007. Sulla somma dovuta maturano gli interessi legali, non anche la rivalutazione monetaria. Altra giurisprudenza di merito (Trib. Firenze 29/5/2008) ha riconosciuto il diritto al cumulo fra i due accessori del credito, rilevando che il divieto di cui all'art. 16 co. 6 L. 412/91 è giustificato da esigenze di contenimento della spesa pubblica, in forza delle quali la Corte Costituzionale, dopo avere dichiarato non costituzionale l'art. 442 c.p.c. nella parte in cui non prevedeva interessi e rivalutazione monetaria per i crediti in materia di previdenza sociale ed assistenza sociale obbligatoria (rispettivamente, Sentenze n. 156/91 e 196/93), ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della detta disposizione in rapporto agli artt. 3 e 38 Cost. (sent. n. 361/96); poiché, afferma la citata giurisprudenza, a seguito del D.Lgs. 509/94, la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense ha natura giuridica di fondazione di diritto privato, e dunque non sussiste la ratio del contenimento della spesa pubblica, il predetto divieto non opera e, viste le summenzionate sentenze nn. 156/91 e 196/93, deve essere riconosciuto il cumulo. Tale soluzione trascura un dato fondamentale, ossia che, nel momento in cui l'ente di previdenza ed assistenza cessa di essere soggetto di diritto pubblico o comunque destinatario di finanziamenti pubblici, si esula dalla fattispecie dell'art. 38 co. 4 Cost. secondo il quale «ai compiti previsti in questo articolo - ossia alla previdenza ed assistenza sociale n.d.r. - provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato». L'intero sistema previdenziale ed assistenziale presuppone l'erogazione o l'intervento dello Stato e dunque, con la privatizzazione di alcuni enti (la Cassa Forense, in questo caso) viene meno l'intera ratio di norme legislative e pronunce della Corte Costituzionale basate sul presupposto di compiti espletati da enti pubblici, o perché istituiti come tali o perché destinatari di finanziamenti statali («integrati dallo Stato»). Di conseguenza, il credito, bensì assistenziale, ma spogliato della connotazione pubblicistica, riguarda una «mera obbligazione pecuniaria» (cfr. Cass. Sez. Lav. 18/3/2002 n. 3921 in materia di ripetizione di contributi previdenziali), ed è perciò produttivo di interessi legali ex art. 1282 c.c. dalla data di rigetto dell'istanza, ma non di rivalutazione monetaria, salvo che il creditore non fornisca la prova del maggior danno ai sensi dell'art. 1224 c.c., prova carente nel caso in esame. Di qui le statuizioni di cui al dispositivo. Giusti motivi costituiti dall'inciso della Corte Costituzionale sopra esaminato, tale da ingenerare i dubbi e le perplessità che hanno indotto la Cassa al diniego del beneficio richiesto, inducono alla compensazione integrale delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale di Termini Imerese, in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra domanda, eccezione o difesa dichiara Il diritto dell'Avv. Emanuele Catania all'indennità prevista dall'art. 70 D.Lgs. 151/01 condanna La Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense a pagare al ricorrente la somma di...., oltre agli interessi legali decorrenti dal 30/4/2008 sino al soddisfo. |