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* LA CASSAZIONE SI E' PRONUNCIATA SUL CASO "ALT - ASSISTENZA LEGALE PER TUTTI". LEGITTIMA LA SANZIONE DISCIPLINARE.
La Cassazione si è pronunciata sul caso "ALT - Assistenza Legale per Tutti".
La vicenda era iniziata con l'irrogazione, da parte del Consiglio dell'Ordine di Brescia, ai sensi dell'articolo 38 del rdl 1578/1933, di una sanzione disciplinare ad avvocato che aveva fatto uso dell'acronimo ALT Assistenza Legale per Tutti per pubblicizzare la sua attività. S'era così dato contenuto concreto al precetto astratto che vieta di «effettuare alcuna forma di pubblicità con slogan evocativi o suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del decoro e della dignità professionale». Il Cnf aveva rigettato il ricorso avverso la sanzione disciplinare, e su questa decisione è stata chiamata ad esprimersi la Cassazione a sezioni Unite. Con sentenza n. 23287 / 2010, depositata il 18 novembre 2010, le Sezioni Unite hanno confermato la legittimità della sentenza del Consiglio Nazionale Forense, confermando la censura disciplinare dei comportamenti volti a acquisire clientela sfruttando un riflesso emotivo irrazionale. E' illegittimo e sanzionabile disciplinarmente, insegna la sentenza 23287 / 2010 della Cassazione, l'utilizzo da parte degli avvocati «di forme di pubblicità comparative attuate con messaggi di suggestione che inducono a ritenere, in modo emotivo e riflessivo, che valga la pena di visitare quello che appare uno studio legale aperto e accessibile, senza le formalità tipiche dello studio legale». La norma sanzionatoria applicata dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Brescia è una norma generale sugli illeciti disciplinari degli avvocati. La "liberalizzazione" della pubblicità attuata nel 2006 dall'allora ministro Bersani non ha, quindi, effetto sul tipo di "propaganda" che i legali possono fare; conseguentemente i Consigli degli Ordini possono ancora intervenire, se del caso, con sanzioni disciplinari. Si legge, in particolare, nella sentenza della Cassazione n. 23287 del 2010: «è vero infatti, che l'art. 2 del dl n. 223/2006, ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa» ma «diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e al decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l'illecito disciplinare di cui all'art. 38, c. 1, rdl n. 1578/1933». Peraltro il sindacato della Corte di Cassazione non può -s'è ribadito- che fermarsi alla verifica della congruità logica della motivazione. Va pure ricordato che l'art. 17 del codice deontologico forense riconosce la libertà di informazione da parte dell'avvocato sulla propria attività professionale, ma precisa che la stessa, per forma e modalità, deve «rispettare la dignità ed il decoro della professione non potendo assumere i connotati di pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa». L'art. 17-bis del codice deontologico, inoltre, stabilisce le modalità specifiche dell'informazione e l'art. 19, intitolato "Divieto di accaparramento di clientela", vieta l'acquisizione della clientela con «modi non conformi alla correttezza e al decoro» |