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LA RELAZIONE ANNUALE DELLA D.SSA FRANCESCA FIORENTINO
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Autore postato il 10/06/2009
Data di pubblicazione 10/06/2009

QUESTIONI GIURIDICHE


1.Insinuazione al passivo del fallimento di un soggetto, del coniuge dello stesso quale titolare di un assegno di mantenimento provvisorio.

Occorre delineare i confini del campo di indagine affrontato: l’aspetto problematico in oggetto è per così dire “nuovo”, gli orientamenti dottrinali nonché le pronunce giurisprudenziali che si sono soffermate sullo stesso sono rarissime ma non per questo affrontano un discorso di scarso interesse. Nel caso di specie premesso che uno dei coniugi era titolare di un’impresa individuale dichiarata fallita, che una crisi coniugale era già sfociata, al momento della dichiarazione di fallimento, in una pronuncia provvisoria di mantenimento emessa, a carico del coniuge fallito, dal presidente del tribunale in corso di giudizio di separazione, ci si è domandati se, a richiesta del coniuge in bonis, il credito relativo al suddetto assegno provvisorio potesse essere ammesso allo stato passivo del fallimento. Prima di tutto mi sono soffermata sulle caratteristiche dei provvedimenti provvisori emessi nel corso del giudizio di separazione, per poi capire l’eventuale ammissibilità del credito derivante dall’assegno di mantenimento provvisorio nello stato passivo del fallimento del coniuge debitore dello stesso.
Poiché la funzione dei medesimi è identificabile nella regolarizzazione di un assetto che risulterebbe sprovvisto, nei rapporti personali e patrimoniali, di qualsiasi regolamentazione per il tempo che occorre alla celebrazione del giudizio di primo grado, al fine di evitare che i membri della famiglia siano, in tal modo, esposti a conseguenza pregiudizievoli, essi sono emanati previa valutazione della situazione esistente in quel momento. La situazione sulla quale vengono ad incidere, però, è sempre suscettibile di mutamenti, di qui l’opportunità che l’istruttore possa rivedere l’ordinanza presidenziale, così come disposto dal novellato art. 709, comma 4, c.p.c. e dall’art. 4, comma 8, l.div. relativi rispettivamente al procedimento di separazione e di divorzio, modificandola o revocandola. In proposito, venuto meno a seguito della riforma del codice di rito, l’inciso presente solo nell’art. 708 c.p.c. “se si verificano mutamenti delle circostanze”, può dirsi confermato il principio, già acquisito ante riforma, in virtù del quale la revoca e la modifica dell’ordinanza presidenziale, da parte del giudice istruttore, sia della separazione che del divorzio, può essere disposta non solo per la sopravvenienza di circostanze di fatto nuove ma anche per la rivalutazione di quelle pregresse. La scarsa stabilità dei provvedimenti provvisori è oggi ulteriormente confermata dallo loro reclamabilità, infatti la l. 54/2006 ha introdotto il principio della reclamabilità dei provvedimenti presidenziali presso la corte d’appello. La corte territoriale esaminerà tanto i vizi di legittimità che il merito del provvedimento, con conseguente svolgimento di una sommaria attività istruttoria. Anche dopo l’assunzione dei provvedimenti della corte d’appello, l’istruttore potrebbe modificare l’ordinanza riformata purché si ravvisano i presupposti per tale mutamento. L’art. 4, comma 8, l.div., come modificato con la riforma del 1987, dichiara applicabile alle ordinanze presidenziali provvisorie l’art. 189 disp. att. c.p.c.1: il provvedimento presidenziale costituisce, dunque, titolo esecutivo e conserva la sua efficacia anche dopo l’eventuale estinzione del processo finché non sia sostituito con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di una nuova presentazione del ricorso per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Le ragioni che stanno alla base del carattere ultrattivo dei provvedimenti provvisori si rinvengono nella necessità di evitare che l’estinzione del procedimento facesse venir meno, a discapito del coniuge più debole, la regolamentazione di una separazione che diventa di mero fatto. La finalità consiste, dunque, nel non lasciare sfornita di regolamentazione la famiglia qualora per vicende delle parti o del processo si sia verificata l’estinzione. Naturalmente cessano gli effetti dell’ordinanza oltre che nell’ipotesi di sostituzione con altro provvedimento a seguito di presentazione di nuovo ricorso (ovvero, se ammissibile, sino alle richieste di modifica), anche qualora i coniugi dovessero riconciliarsi. L’ordinanza presidenziale costituisce, come si è detto, titolo esecutivo, seppur non idoneo all’iscrizione di ipoteca giudiziale. In virtù di ciò si ritiene che sia comunque possibile ammettere al passivo del fallimento un importo corrispondente ai ratei mensili maturati antecedentemente alla dichiarazione di fallimento e per di più fondati su un provvedimento giudiziale che per legge è titolo esecutivo. L’anteriorità del provvedimento pronunciato dal giudice della separazione rispetto alla dichiarazione di fallimento, per i crediti antecedenti al fallimento, potrebbe giustificare l’insinuazione al passivo del coniuge titolare, mentre per i crediti maturati successivamente il coniuge non avrà diritti da far valere nei confronti della massa (non essendo creditore concorsuale), ma solo nei confronti del fallito, rispetto a quei beni o rapporti non compresi nel fallimento perché di natura strettamente personale. D’altronde se il contenuto dell’assegno provvisorio non dovesse trovare assorbimento nella sentenza definitiva di separazione o di divorzio, se il giudice istruttore, successivamente all’udienza presidenziale, provvedesse a modificare o revocare l’assegno, se tale intervento dovesse essere il frutto della stessa dichiarazione di fallimento, ciò non inciderà sulle somme dovute e maturate in virtù del provvedimento provvisorio medesimo e fino a quando questo produrrà i suoi effetti. Ai fini dell’opponibilità alla procedura concorsuale si distinguerà solamente tra credito maturato prima o successivamente alla dichiarazione di fallimento.


2.Ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato alla restituzione delle spese processuali sostenute.

L’interrogativo su cui mi sono soffermata verteva sulla possibilità o meno di depositare ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere la restituzione delle spese legali al cui pagamento era stato condannato il sig. F.A., rimasto soccombente in primo grado, stante la circostanza che la sentenza della Corte d’Appello è risultata a lui favorevole. Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. notificato al sig. F.A., la ricorrente richiedeva al competente Tribunale di Salerno, di voler accertare e dichiarare la risoluzione del contratto di comodato gratuito, tra di loro intercorso a far data dal 18.03.1999, con condanna del sig. F.A. alla restituzione del bene oggetto del contratto e al pagamento delle spese di lite. Il resistente si costituiva regolarmente in giudizio chiedendo il rigetto della domanda, con vittoria di spese, diritti e onorari di giudizio. Il Tribunale di Salerno – prima sez. civ. – con sentenza resa nel gennaio 2006 dichiarava la cessazione del contratto di comodato oggetto di causa, condannava il resistente al pagamento in favore della ricorrente di € 800,00 per onorario, compensando le residue spese processuali tra le parti. Il sig. F.A. avverso la suddetta sentenza propose appello con ricorso depositato il 7.02.2006, al fine di ottenere in via preliminare la sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata, sussistendone motivi di eccezionale gravità, e nel merito la riforma dell’impugnata sentenza, con vittoria di spese e competenze del doppio grado di giudizio.
La Corte d’Appello con sentenza depositata nell’ottobre del 2008 – che oggi deve ritenersi che faccia stato tra le parti stante la mancata proposizione avverso la medesima di ricorso in cassazione nei termini di legge - ha accolto l’appello, riformato la sentenza impugnata e compensato tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Considerato che il sig. F.A. in ossequio al dispositivo della sentenza di primo grado e su richiesta della parte vittoriosa in primo grado, al fine di evitare l’esecuzione coattiva ha provveduto al pagamento, senza con ciò prestare acquiescenza, delle spese legali di primo grado, ci si è chiesti se possa considerarsi esperibile un ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere la restituzione della suddetta somma. A tale interrogativo mi sono data risposta positiva per due ordini di motivi: in primo luogo considerando che ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c., la riforma ha effetto anche sui capi della sentenza dipendenti dalla parte riformata, anche se non espressamente impugnati. Analogamente, copiosa giurisprudenza (si veda Cass. 10811/04; Cass. 15988/03; Cass. 13104/03) sostiene che riformata o cassata la sentenza cade la pronuncia sulle spese, in proposito si parla di effetto espansivo interno della riforma e della cassazione della sentenza. In secondo luogo considerando che la giurisprudenza è ferma nel ritenere che il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il sol fatto della riforma e può essere richiesta automaticamente, se del caso, anche con provvedimento monitorio (così Cass. 6579/03).
Pertanto ho provveduto alla elaborazione del suddetto ricorso.


3. Scelta dell’atto da predisporre per tutelare il diritto d’autore vantato sui programmi per elaboratori elettronici dalla società produttrice dei medesimi.

La società A. è titolare dei diritti d’autore, comprensivi dei diritti esclusi di utilizzazione economica, sui programmi per elaboratori elettronici, da essa prodotti e sviluppati in virtù degli artt. 12 e 12 bis l. 633/1941. A seguito di segnalazioni ricevute da parte dei consumatori in merito alle marcate differenze nei prezzi praticati dai rivenditori della stessa zona per gli stessi prodotti, la società A. ingaggiò alcuni investigatori privati per l’accertamento di eventuali illeciti. Dalla relazione dell’investigatore privato, titolare di regolare licenza prefettizia, si è dedotto che la società C. e il sig. S., rispettivamente alienante e acquirente di un PC portatile, precaricato gratuitamente del programma per elaboratore prodotto e sviluppato dalla società A., hanno posto in essere una condotta in violazione sia delle norme poste a tutela del diritto d’autore, essendo i prodotti in questione tutelati ai sensi dell’art. 64 bis ss. l. 1941/633, che dei diritti esclusivi conferiti alla società A. dalla legge marchi, arrecando un danno certo alla ricorrente.
Mi sono, dunque, interrogata circa l’atto più opportuno da predisporre per tutelare i diritti della società assistita.
Fermo restando che il d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 intitolato “istituzione di sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d’appello, a norma dell’art. 16 della legge 12 dicembre 2000, n. 273”, prevede la competenza (art. 3) delle suddette sezioni specializzate a conoscere anche delle controversie in materia di diritto d’autore, il dubbio atteneva all’utilità o meno della predisposizione di un atto di citazione che non fosse preceduto dall’adozione di un provvedimento cautelare.
Chi teme di subire una violazione del proprio diritto di utilizzazione, o l’abbia già subita, può chiedere: l’accertamento del diritto e l’inibizione dell’attività illegittima; la rimozione o la distruzione degli esemplari frutto di tale ultima attività – art. 158 l.a. -; la condanna al risarcimento del danno – art. 158 l.a.
La questione in esame mi ha indotto ad estendere il mio studio alle tante elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali che hanno affrontato e risolto – seppur in maniera diversa - il tema della determinazione del quantum dell’obbligazione risarcitoria del danno patrimoniale da violazione di diritti d’autore. Nella maggior parte degli articoli e dei commenti studiati, le sentenze e dunque i processi richiamati –relativi anche al fenomeno del c.d. hard disk loading- si caratterizzavano per essere la notifica dell’atto di citazione stata preceduta dalla richiesta di un provvedimento cautelare ante causam, con la conseguenza che nell’incardinato giudizio di merito, finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni subiti, si chiedeva in via preliminare, l’acquisizione del verbale inerente la misura cautelare ottenuta. Si è deciso, dunque, sussistendone i presupposti, ossia: il fumus bonis iuris – comprovato dalla circostanza che la titolarità in capo alla A. dei diritti d’autore sui software prodotti, risulta dalla, seppur facoltativa, registrazione nel registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore tenuto dalla SIAE- e il periculum in mora –considerato che l’iniziativa della condotta illecita è stata tenuta dall’impiegato preposto alla vendita della società C. e che dunque è apparso presumibile l’abitualità di questa società alla commercializzazione di PC corredati dei programmi per elaboratori elettronici prodotti dalla A. ma privi di licenza- di redigere ricorso ex artt. 161 L. 22.04.1941 n. 633 e 128 D.lgs. 10.02.2005 n. 30.
Tra l’altro in giurisprudenza l’opinione maggioritaria ritiene che, in tali fattispecie, il periculum che tali provvedimenti cautelari sono volti a riparare riguarda il diritto all’acquisizione della prova e che esso sussiste tutte le volte in cui quel diritto possa essere pregiudicato. Il pericolo, dunque, appare esistente nel caso di specie stante la natura mobile dei beni oggetto della violazione. Pertanto, considerata la tipicizzazione in materia di diritto d’autore della misura della inibitoria cautelare, ho provveduto, come precisato, alla predisposizione del predetto ricorso, affinché il giudice adito disponesse, in via d’urgenza, la descrizione del materiale rinvenibile presso l’esercizio commerciale della società C. e pertinente alla predetta violazione, con contestuale nomina di C.T.U., al fine di acquisire la prova che, previa valutazione della sua ammissibilità e rilevanza, verrà utilizzata nel giudizio di merito.


4. Ricorso per decreto ingiuntivo proposto da un C.T.U. nei confronti di chi, in virtù del decreto di liquidazione, non risulta obbligato al pagamento del compenso a questo spettante.

In pendenza di un giudizio, instaurato con atto di opposizione a decreto ingiuntivo, reso in favore dell’assistita Banca, fu nominato su richiesta di parte opponente un C.T.U., al fine di provvedere al ricalcolo degli interessi convenzionali passivi (comunque regolarmente pattuiti ex art. 1284 c.c. e contenuti entro i limiti del tasso soglia) maturati sull’importo richiesto, quale saldo debitore del contratto di conto corrente. Il G.I. nominato il C.T.U., dopo il deposito dell’elaborato peritale e in pendenza del giudizio, ha disposto in suo favore, con decreto di liquidazione, un compenso pari ad € 1.000,00, ponendolo provvisoriamente a carico della parte che ha chiesto la nomina del perito.
La difficoltà di recuperare il suddetto importo nei confronti della parte obbligata, stante l’esito infruttuoso del pignoramento, ha motivato il citato professionista al recupero della suddetta somma mediante ricorso per decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto nei confronti dell’altra parte del processo. Il mio studio si è concentrato sulla posizione difensiva da assumere in una eventuale comparsa di costituzione e risposta da predisporre in favore della Banca, in virtù della circostanza che il decreto di liquidazione emesso dal G.I. ha posto il compenso a carico esclusivo dell’opponente. Si è trattato di uno studio non certo agevole, come dimostrato da copiosa giurisprudenza in materia, che riconosce, a prescindere dalla pendenza del processo in cui è stata espletata la consulenza tecnica, la natura solidale e dunque a carico di tutte le parti del processo, della suddetta obbligazione. Natura solidale giustificata dalla preordinazione della consulenza tecnica a soddisfare l’interresse di tutte le parti di un processo. Pertanto, nonostante la pendenza del giudizio, nonostante l’obbligazione fosse disposta con il decreto di liquidazione ad esclusivo carico dell’opponente, nel caso di specie, la Banca non poteva opporsi all’adempimento della suddetta obbligazione, avente per sua natura, carattere solidale.


5. Responsabilità della banca trattaria ex art. 43 r.d. 21 dicembre 1993 n. 1736

La fattispecie in esame ha origine da un atto di citazione a mezzo del quale la società assistita conveniva la banca trattaria per sentire dichiarare la responsabilità del convenuto istituto di credito per non aver osservato la diligenza richiesta nel pagamento di due assegni bancari muniti della clausola di intrasferibilità tratti dalla società attrice, contraffatti e pagati illegittimamente a persona diversa dal beneficiario. In materia di assegno contraffatto, in giurisprudenza si è gradualmente affermata la tesi per cui, in considerazione della natura contrattuale del rapporto, la responsabilità della banca trattaria sussiste solo qualora, in applicazione della disciplina in tema di mandato (art. 1720, comma 2, c.c.) insito nella convenzione di assegno, sia ravvisabile una condotta colposa della stessa nei controlli esperiti all’atto del pagamento. Pertanto, se l’alterazione del titolo è grossolana o, secondo una formula diffusa in giurisprudenza, riconoscibile “ictu oculi”, non vi possono essere dubbi sulla sussistenza della responsabilità dell’istituto di credito tenuto a verificare la regolarità formale del titolo.
Appare quindi del tutto evidente che l’accertamento della responsabilità della banca dipenda proporzionalmente dal giudizio sulla riconoscibilità del falso. Al riguardo il prevalente indirizzo giurisprudenziale prevede pure l’innalzamento del livello di diligenza – e ciò sulla base del servizio pubblico espletato dalle banche – per cui lo specifico grado di diligenza che è richiesto all’istituto bancario per il pagamento di un assegno (al quale risulta evidentemente connessa la decisione in merito alla responsabilità) deve essere conforme a quello dell’homo eiusdem condicionis et professionis ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c. e non invece a quello del buon padre di famiglia.
Nella fattispecie che ci occupa, la Banca trattaria non ha agito né con la dovuta diligenza, né con la correttezza e buona fede tipica del banchiere e, a riprova di ciò, è sufficiente la considerazione che l’addetto allo sportello che compì materialmente l’operazione di pagamento si sia limitato ad identificare il prenditore attraverso un documento di riconoscimento risultato falsificato, ma non abbia provveduto, com’era d’obbligo, a confrontare la firma di traenza con quella apposta sullo “specimen” in possesso dell’istituto di credito. Così procedendo, l’alterazione della stessa sarebbe stata palese “ictu oculi”.


QUESTIONE DI DEONTOLOGIA
La questione deontologica affrontata si è concentrata su una domanda pregiudiziale vertente sull’interpretazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica.
Il caso: la suddetta domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta in seguito al rifiuto, da parte del conseil de l’ordre des avocats du barreau de Luxembourg (Consiglio dell’ordine degli avvocati del foro do Lussemburgo) d’iscrivere il sig. G. J. W., cittadino del Regno Unito, all’albo dell’ordine degli avvocati di Lussemburgo.
La Corte di Giustizia, con sentenza depositata il 19 settembre 2006, ha riconosciuto che ogni avvocato ha diritto di esercitate stabilmente la sua attività in qualsiasi Stato membro con il suo titolo professionale d’origine senza essere soggetto alla preventiva verifica delle sue conoscenze linguistiche.
Il Lussemburgo prevedeva, per chi volesse esercitare la professione di avvocato nel proprio territorio, il requisito della “padronanza della lingua della legislazione e delle lingue amministrative e giudiziarie” ed imponeva una previa verifica di tali conoscenze. La Corte ha dichiarato che il professionista dovrà comunque essere in possesso, in concreto e in relazione alla peculiarità della vicenda da lui seguita, delle necessarie conoscenze giuridiche e linguistiche. Infine, la Corte ha affermato che i rimedi “interni” previsti per tali casi dall’ordinamento lussemburghese non forniscono le medesime garanzie di imparzialità dei rimedi giurisdizionali: “in caso di diniego dell’iscrizione al foro dello Stato membro ospitante, un ricorso presentato dinanzi ad un collegio disciplinare composto esclusivamente o prevalentemente di avvocati locali non può essere ritenuto equivalente al rituale ricorso giurisdizionale che la direttiva impone agli Stati membri di prevedere per tali casi.
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