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* * * I fantasmi a volte ritornano. Specie se li rievochiamo, la suggestione diventa forte. Anche perchè le esperienze passate hanno lasciato il segno, con la soppressione del Tribunale di Sala Consilinae e di alcune importanti sezioni come quella di Eboli. E' una prestigiosa associazione di avvocati, la Camera Penale Salernitana, che ha rispolverato nei giorni scorsi lo spettro di nuove soppressioni di uffici giudiziari nella provincia di Salerno, già colpita nel 2012 dalla "epocale" qunto nefasta riforma completata dalla Ministra Severino. Per la verità non si tratta di una novità assoluta,...
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XXIX CONGRESSO NAZIONALE FORENSE - BOLOGNA - RAZIONALIZZAZIONE DEI PROCESSI CIVILI – IL GIUDICE PUBBLICO NON STATALE: UNA RIFORMA POSSIBILE. Scheda a cura degli avv. Filippo Falvella, Barbara Lorenzi, Giuseppe M. Valenti, Renato Veneruso, Roberto Zazza.
Sezioni: EVENTI E VARIE
Autore Enrico Tortolani
Data di pubblicazione 28/11/2008
Dagli atti del XXIX Congresso Nazionale Forense. Pubblichiamo un interessante contributo sulle proposte di riforma del rito civile.

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Che il sistema giudiziario italiano sia al tracollo ce lo sentiamo dire ogni anno, e ogni anno sentiamo annunciare ulteriori riforme della giustizia. Tuttavia dopo ogni riforma ci ritroviamo come o peggio di prima, come se svuotassimo il mare col secchio.
Meno noto è che tutti i sistemi giudiziari dei paesi europei subiscono un andamento analogo: certo non collassano, ma mostrano segni di affaticamento, come aumento del contenzioso e allungamento dei tempi medi dei processi. Le ragioni sono molteplici e articolate, ma tutte possono riassumersi nel fatto che nessuno stato nazionale è attrezzato per rispondere validamente alla domanda di giustizia proveniente da un bacino di trecento milioni di abitanti e milioni di imprese, comunitarie e non. Ciò perché c’è e ci sarà sempre più un lievitare fisiologico degli scambi commerciali, e quindi anche delle loro patologie, non solo all’interno dell’U.E., ma anche nei confronti dei paesi extraeuropei. Per tutti gli stati membri, quindi, si pone un problema di risorse statali sempre più scarse a fronte di una domanda di giustizia crescente e anelastica.
Naturalmente la crisi viene avvertita prima e maggiormente in quei paesi, come l’Italia, ove la situazione era già difficile. Ciò spiega in parte anche l’inutilità di tutti i tentativi qui messi in atto nell’ultimo decennio per fronteggiare la situazione: concepite con lo sguardo al passato e nell’ottica limitata dello stato nazionale, prima ancora di andare a regime tali riforme si sono rivelate superate dagli eventi, quando non clamorosamente inadeguate.
Dobbiamo perciò essere i primi a uscire dallo schema degli ordinamenti chiusi e bastanti a se stessi, traduzione giuridica degli Stati nazionali, che rispondevano al trittico un popolo, uno stato, una legge. In tale contesto è tipico che la funzione giudicante sia assolta da un funzionario pubblico di carriera, delegatario di un potere avocato a sé ab origine dallo Stato: quello dello jus dicere. Tuttavia questo modello non è né eterno né universale: piuttosto è il risultato dell’evoluzione dello Stato nazionale da monarchia assoluta in Stato di diritto. La rottura del trittico, determinata dalla nascita dell’U.E., conduce alla formazione di una sfera di diritto comune transnazionale, sottratto alla competenza esclusiva dello Stato, con conseguente frammentazione delle fonti normative, tendenza che in Italia è stata ulteriormente sancita dal riconoscimento in capo alle regioni di talune potestà legislative esclusive avvenuto a seguito della riforma del titolo V della Costituzione.
In tale ottica non appare quindi più consequenziale e legittimo il mantenimento del monopolio giurisdizionale da parte dell’autorità statale, e sembra venir meno la stessa centralità del processo civile statale quale mezzo normale o principale di risoluzione dei conflitti, come emerge dagli studi di alcuni autorevoli giusprocessualisti, quali Picardi o Verde.uet

Si tratta di abbandonare le note spiagge del pangiurisdizionalismo per avventurarsi in un pelago poco noto, e forse sarà necessaria qualche interpretazione evolutiva di norme costituzionali, se non addirittura qualche modifica. Tuttavia le alternative sinora proposte a questa esplorazione sembrano essere una drastica riduzione delle garanzie o i consueti pannicelli caldi. La nostra navigazione perigliosa è invece un tentativo di riallineamento complessivo del sistema al nuovo quadro istituzionale che si va delineando. Ciò comporta in ogni caso l’assicurazione dell’intangibilità di taluni principi fondamentali (terzietà, indipendenza, capacità professionale del giudice), la risoluzione di alcuni problemi (come l’attribuzione o distribuzione dei costi) e il superamento di alcune prevedibili obiezioni, prima di tutto quella relativa al giudice naturale.
Per quanto riguarda quest’ultima, basterà qui dire che per assolvere il precetto costituzionale dell’art. 25 non sembra necessario che il giudice sia un pubblico funzionario statale, ma potrebbe essere sufficiente che venisse individuato ante causa attraverso un procedimento non arbitrario, bensì disciplinato per legge. Né a ciò osterebbe il contenuto dell’art. 102 Cost. che attribuisce alla legge sull’ordinamento giudiziario, cioè a una legge ordinaria, il potere di istituire e regolare i soggetti giurisdicenti. Neppure il concorso prescritto dal successivo art. 106 per la nomina appare indizio decisivo, se si consideri che, per esempio, anche alla funzione notarile si accede per concorso, senza per ciò instaurare un rapporto di impiego pubblico con lo stato. La scelta di affidare la giurisdizione al giudice statale quindi è solo uno dei modelli possibili, ma non per questo necessariamente l’unico compatibile col dettato costituzionale. L’attuale monopolio statale della giurisdizione potrebbe quindi essere superato ed evolvere perfino senza dover modificare la Costituzione.
Si tratta, in altre parole, di istituire un ulteriore foro alternativo per le materie non riservate (cioè quelle di natura disponibile), nel quale la giurisdizione è esercitata come un munus.
Siccome si tratta di un mare novissimo, sarà bene fare almeno un esempio di una delle strutturazioni possibili. Ipotizziamo che una legge disponga che gli enti territoriali (comuni, province e regioni), le associazioni dei lavoratori (dipendenti o autonomi), quelle degli imprenditori, dei produttori e dei consumatori, d’intesa con gli ordini professionali e le camere di commercio (tutti soggetti sociali intermedi di rilievo costituzionale: titolo V per gli enti locali, art. 2 e 39 per gli altri) possano, a determinate condizioni di accreditamento fissate dalla legge medesima, istituire organismi giurisdizionali nei comuni con almeno 15.000,00 abitanti. Ipotizziamo che la medesima legge preveda che tali enti abbiano il solo compito di amministrare la procedura, cioè ricevere le domande, designare i giudici secondo criteri prefissati, ricevere il deposito delle decisioni e repertoriarle, ricevere il deposito delle spese di procedura, analogamente a ruolo ordinariamente svolto dalle camere arbitrali. Ipotizziamo ancora che per essere abilitati a giudicare i giudici non statali debbano conseguire un’abilitazione secondo criteri determinati per legge, come il possesso di specifici titoli. Ipotizziamo che gli organismi giurisdizionali debbano tenere un elenco dei giudici abilitati a giudicare presso di loro. Ipotizziamo che avanti a tali giudici si applichi un rito uniforme, meglio se informatizzato. Ipotizziamo per tali giudici un sistema di autonomia (per esempio una sezione autonoma del CSM, con elezione riservata e separata). Ecco che avremo la possibilità di moltiplicare la risposta giurisdizionale in poco tempo con una struttura leggera, a costo zero per il bilancio dello stato, che si distribuisce in funzione della domanda di giustizia e libera le risorse statali per consentire di concentrarle in quei settori e territori dove sono più carenti, con un complessivo miglioramento di efficienza.
E’ ovvio che c’è un problema di costi, i quali in linea di principio non possono che essere a carico delle parti litiganti, come del resto accade attualmente nel processo civile. Qui pure vige la regola generale per cui l’attore anticipa le spese del processo, che poi vengono imputate definitivamente dal giudice nella sentenza secondo il criterio della soccombenza. Di conseguenza il rapporto costo/beneficio rimane sempre una valutazione di chi ha interesse ad agire. Del resto anche nel sistema statale attuale in caso di fori (o giurisdizioni) alternativi ci si trova davanti ad analoghe scelte di opportunità.
Il problema dei costi è però meno grande di quanto si possa pensare. Per esempio, trattandosi di una giustizia di comunità, la socializzazione almeno parziale degli oneri potrebbe avvenire attraverso i contributi dei soggetti promotori. Si potrebbe obiettare che in questo modo le comunità più ricche o più organizzate godrebbero di una maggior quantità di giustizia rispetto a quelle più povere o meno organizzate. Questo accadrebbe soltanto se il sistema di giustizia statale non riutilizzasse rapidamente e con criterio le risorse liberate dall’impiego dei giudici non statali; ma se dobbiamo partire dall’assioma che lo stato utilizza male le scarse risorse disponibili per la giustizia, allora a maggior ragione ben venga il giudice non statale. Si potrebbe poi pensare a forme di assicurazione per la copertura degli oneri processuali, analogamente a ciò che avviene in campo sanitario, mentre, per quello che riguarda gli indigenti, potrebbero valere i criteri previsti per il gratuito patrocinio. Tale soluzione potrebbe forse far rilevare un qualche incremento di oneri per l’erario, tuttavia, anche prescindendo dalla preminenza dell’obbligo di solidarietà sociale, tali oneri da un lato sarebbero contenuti dalla preventiva valutazione di ragionevole fondatezza delle ragioni addotte dal beneficiario, e dall’altra sarebbero compensati dall’aumento di efficienza. La congestione dei processi, infatti, e la loro eccessiva lunghezza, ne aumenta di molto il costo unitario anche per le casse statali. A tal proposito un ulteriore elemento per limitare i costi del ricorso al giudice non statale potrebbe rinvenirsi nella completa defiscalizzazione dei relativi oneri, soluzione giustificata dalla mancata incidenza sul bilancio dello Stato del circuito giudiziario non statale.
Negli ultimi vent’anni le tasse richieste dall’erario per l’accesso alla giustizia sono aumentate in maniera letteralmente esponenziale, molto di più del costo della vita e del pur generale aumento della pressione fiscale. Non c’è bisogno di un genio della statistica per constatare che nel frattempo i processi non solo sono diventati più lunghi e costosi, ma soprattutto che sempre più spesso il loro risultato è inutile, nel senso che il ritardo della decisione vanifica la funzione economico-sociale che l’esito del giudizio avrebbe dovuto garantire. Se il processo è la giustizia nel caso concreto, allora dobbiamo dire che il processo statale è già venuto meno al suo scopo. Non porre argine a questa situazione equivale ad avallare la vulgata destabilizzante che circola tra la gente: la giurisdizione è incompatibile con i ritmi della vita reale, è un optional buono per tignosi e sognatori, quindi magistrati, avvocati e gli altri addetti sono solo petulanti sacerdoti di dei inutili.

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