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* * * I fantasmi a volte ritornano. Specie se li rievochiamo, la suggestione diventa forte. Anche perchè le esperienze passate hanno lasciato il segno, con la soppressione del Tribunale di Sala Consilinae e di alcune importanti sezioni come quella di Eboli. E' una prestigiosa associazione di avvocati, la Camera Penale Salernitana, che ha rispolverato nei giorni scorsi lo spettro di nuove soppressioni di uffici giudiziari nella provincia di Salerno, già colpita nel 2012 dalla "epocale" qunto nefasta riforma completata dalla Ministra Severino. Per la verità non si tratta di una novità assoluta,...
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GIOVANNI FALCONE. * * IL DIBATTITO POLITICO SUL NUOVO RUOLO DELLA MAGISTRATURA * * *
Sezioni: FOCUS
Data di pubblicazione 10/06/2008
Enter_Title_Here " In buona sostanza siamo, ancora una volta, in presenza della storia infinita delle reciproche quérelles dei magistrati, che addebitano al potere politico di volere soffocare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, per ottenere una sostanziale impunità, e dei politici che addebitano alla magistratura un sostanziale straripamento dai propri compiti, per ergersi a una sorta di contropotere non legittimato da alcuna istanza popolare." * * *
Un intervento del Giudice siciliano ad un congresso dell'Associazione Nazionale Magistrati di molti anni fa, ricordato e pubblicato in occasione dell'ultimo congresso dell'A.N.M dell'8 giugno scorso. Un tema sempre attuale, com'è ancora attuale il pensiero di Giovanni Falcone.


Parlare di rapporti tra politica e magistratura in maniera serena e scevra da emozionalità, senza riferimento alle vicende che tutti quanti stiamo vivendo, o che comunque abbiamo sotto gli occhi in questo momento, è praticamente impossibile.
A questo punto mi domando se l’emozionalità, la polemica la conflittualità fra magistratura e potere politico non possano essere, contrariamente a quello che generalmente si pensa, e comunque almeno in quantità accettabile, qualcosa di vivo e di vitale per approfondire i problemi.
Devo dire che sono stato, per un certo periodo di tempo, molto preoccupato dal fatto che problemi essenziali, fondamentali per la democrazia, come quelli di cui ci occupiamo, non sembrassero più tali all'attenzione né degli addetti ai lavori, né della società civile, e quelle rarissime volte che se ne parlava era un po' come uno stanco rituale. Da qualche tempo a questa parte le cose sono cambiate e si discute di questi problemi con una passione civile che, al di là e nonostante le inevitabili strumentalizzazioni che se ne fanno, è qualcosa che veramente rincuora. Perché, ribadisco, su questi problemi, che non sono affatto problemi riservati a una élite di esperti, si gioca lo stesso avvenire della nostra giovane democrazia.
Per quel che potrò, anche adesso, come da un po' di tempo sto facendo, cercherò di focalizzare certi punti, certi aspetti del problema. E’ veramente singolare, però, che, al di là di. certe affermazioni di principio, al di là di certe contrapposizioni statiche, tuttora non si giunge, almeno a mio modo di vedere, a quelle che sono le vere questioni.
Leggevo oggi, ed ho portato con me, alcuni articoli ed alcuni brani di libri. Se volete per una forma di «tuziorismo», perché certe volte — almeno a me capita — si confonde l'esistenza di un problema con chi lo denuncia. Anziché occuparsi di un problema si demonizza chi pone la questione, chi cerca di attirare l'attenzione sul problema stesso. Ho portato quindi questi articoli e questi brani perché su di essi si possa fare una riflessione, per quanto possibile, serena. Dopo che per un certo tempo è stata pressoché costante la moda del linciaggio verso la politicizzazione dei giudici – dico linciaggio perché, se è vera la denuncia della politicizzazione dei giudici, almeno entro certi limiti, non è corretto l'uso strumentale che di queste inevitabili storture è stato fatto nel corso di questi ultimi tempi – dopo un periodo di attacco frontale contro i giudici, dicevo, attacco che ha avuto il suo punto più elevato nel referendum sulla responsabilità civile, adesso, con una velocità degna di miglior causa, siamo di fronte alla difesa ad oltranza della indipendenza dei giudici.
Cerchiamo di vedere un po' meglio di che cosa ci si occupa, e di che cosa stiamo parlando, perché altrimenti si corre il rischio di fare quel solito ragionamento per slogan che non ci fa fare un solo passo avanti. Vorrei trarre spunto da un articolo pubblicato oggi dal «Giornale» di Montanelli, un articolo di Salvatore Scarpino, che debbo dire è abbastanza pessimista, nel senso che i problemi da lui focalizzati, da lui messi in evidenza, a suo dire non hanno alcuna possibilità di soluzione.
In buona sostanza cosa afferma l'articolista? Da un lato che tra il malaffare degli uomini dei partiti e i cittadini, su cui si scaricano i costi inconfessabili della corruzione, è rimasta sol­tanto la magistratura. Abbiamo fatto un notevolissimo passo avanti se si pensa che fino a poco tempo addietro ci si addos­sava, ci si addebitava una cosiddetta supplenza, il che è inevita­bilmente una stortura. Adesso invece si afferma – è l'angolo visuale che è mutato, ma non la sostanza dei problemi – che in realtà tutte le strutture amministrative e burocratiche di con­trollo sono saltate, o non sono mai state efficienti, e di fronte al malaffare della politica è rimasto soltanto il filtro della magi­stratura.
Oggi, ribadisce Scarpino – non lo dimentichiamo, perché altrimenti poi sono io che affermo queste cose –, da una parte c'è il politico governante, legislatore, amministratore, dall'altra c'è il giudice e, fra i due, un clima di sospetti e di rancore. E così mentre da un lato una frazione della magistratura si è messa a giocare alla politica, avanzando pretese di impossibile sup­plenza nell'azione di governo – ecco che ritorna il discorso della supplenza – dall'altro lo scandalo delle tangenti serve certa­mente per rinfocolare le polemiche, con la conseguenza che, sempre secondo l'autore, i veri legittimi problemi di efficienza e coordinamento nell'organizzazione del lavoro giudiziario non vengono affrontati. Mentre per contro – ecco il discorro – molti politici vorrebbero irreggimentare i pubblici ministeri per impedirgli di arrestare gli assessori sgraffignoni.
In buona sostanza siamo, ancora una volta, in presenza della storia infinita delle reciproche quérelles dei magistrati, che addebitano al potere politico di volere soffocare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, per ottenere una sostanziale impunità, e dei politici che addebitano alla magistratura un sostanziale straripamento dai propri compiti, per ergersi a una sorta di contropotere non legittimato da alcuna istanza popolare.
Il problema diventa sempre più pressante perché vi sono diversi orientamenti, diversi settori di opinioni, per ora minoritari, ma sempre più ascoltati, che propugnano, e che si rendono partecipi e interpreti di una nuova concezione dei rapporti tra le diverse funzioni dello Stato, che porterebbe a un reciproco gioco tra le tre diverse funzioni dello Stato stesso, in maniera molto differente rispetto a quella attuale. Mi riferisco in particolare all'opinione delle leghe e, soprattutto, a quanto ha scritto il loro ideologo, il prof. Miglio, in un suo recentissimo libro, dove si occupa anche dei problemi della magistratura. Mi sembra importante parlarne perché credo che si tratti di affermazioni che, anche per l'autorevolezza di chi le scrive e di chi le manda avanti, meritano di essere attentamente medi­tate.

Ovviamente cercherò di essere più breve possibile, ma i punti più importanti vorrei sottoporli alla vostra attenzione. Ecco cosa dice Miglio: «L'Italia si trova in una situazione paradossale, avrebbe bisogno di una legione di magistrati effi­cientissimi come automi spietati e, invece, si trova dinanzi ad un'armata Brancaleone di persone per lo più politicizzate e compromesse con i partiti». Miglio parla soprattutto di due problemi che dovrebbero essere affrontati e in cui c'è l’ubi consistam, o almeno lui lo vede, dei motivi della scarsa effi­cienza della magistratura e, soprattutto, dell'attrito fra le diverse funzioni dello Stato. Dice: «La prima questione tecnica concerne il riassetto dell'organo di autogoverno dei giudici. Io ritengo che esso debba essere composto soltanto da magistrati, debba avere competenze esclusivamente sulla gestione delle carriere del personale giudicante ed essere presieduto dal presidente della Corte di cassazione.» Quindi eliminazione totale della componente laica dal Consiglio Superiore della magistratura e unicamente funzioni di amministrazione della carriera dei magistrati.
La seconda questione concerne – e questo mi sembra l'aspetto più importante delle idee di Miglio, con cui cominciamo ad entrare veramente in medias res – l'ordinamento del pubblico ministero. «Premesso che gli organi di questa funzione dovrebbero essere nettamente distinti da quelli della funzione giudiziaria, che ciascun ufficio dovrebbe essere organizzato gerarchicamente dal suo interno e che gli organi superiori dovrebbero potere avocare a sé nell'ambito territoriale della propria competenza gli affari trattati dagli organi inferiori, i funzionari del pubblico ministero dovrebbero avere una propria carriera distinta da quella dei magistrati della funzione giurisdi­zionale e non dovrebbero poter essere trasferiti ad uffici di quest'ultima. Il loro reclutamento dovrebbe avvenire per con­corso, ma la nomina, le promozioni, le assegnazioni, eccetera, dovrebbero spettare al procuratore della Costituzione.» Cioè al vertice di un ordinamento del pubblico ministero ridisegnato dall'ideologia delle leghe ed individuato dal prof. Miglio. «Adottando questo disegno si avrebbe il massimo di unità nell'organizzazione e nella gestione del pubblico ministero. E poi soprattutto – e questo farà storcere il naso a parecchi – è evidente che l'amministrazione della giustizia in Italia potrà diventare meno insoddisfacente soltanto se si capovolgerà l'interpretazione permissiva e perdonista dell'articolo 27 della Costituzione, quella secondo cui le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato. Le pene devono tornare ad essere tali e devono essere scontate fino in fondo. La rieducazione del condannato deve essere perseguita soltanto laddove quest'ultima si riveli oggettivamente suscettibile di un siffatto recupero. Nei casi più gravi contemplati dal codice penale la sentenza di condanna in primo grado deve produrre immediatamente i suoi effetti restrittivi. La società ha il diritto. di difendersi contro chi attenta alle legittime prerogative dei suoi componenti.»
Mi sono attardato un po' nel leggervi queste cosette perché dovremmo cominciare a renderci conto un po' tutti che c'è una fascia sempre più larga della società che ha una concezione dei rapporti tra le diverse funzioni dello Stato e sulla indipendenza e autonomia della magistratura, che certamente non è consona rispetto a quanto generalmente si afferma e rispetto a quanto spesso sentiamo dire, soprattutto in questi giorni, con toni e con accenti non privi di una certa retorica. Liquidare queste opinioni in maniera sbrigativa non si può, perché sono autorevolmente rappresentate, quanto meno sotto l'aspetto quantitativo, anche nel Parlamento nazionale. Con esse si dovrà fare i conti in una prospettiva di riforma istituzionale cui, secondo quanto tutti affermano, dovrebbe essere dedicata la legislatura in corso. Ecco allora che un approfondimento di questi problemi è, non Solo utile, ma direi essenziale per ciascuno di noi, per comin­ciare a capire di che cosa stiamo parlando. Perché nessuno ha la bacchetta magica, e i problemi sono apparentemente semplici ma in realtà estremamente complessi.
Mi sembra opportuno richiamare adesso alcuni punti da cui, a mio modesto modo di vedere, bisognerebbe partire per un ragionamento utile su questi argomenti. Il punto di partenza non può essere che l'assetto della magistratura, nel complesso dei pubblici poteri, quale è disegnato dalla Costituzione. Baste­rebbe richiamare questi articoli per rendersi immediatamente conto come il problema sembrerebbe abbastanza semplice. L'articolo 101 afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge; il 104 che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere; il 107 che i magistrati sono inamovibili; il 107 secondo comma che i magistrati si distin­guono tra loro soltanto per diversità di funzioni, cioè l'indipendenza interna e non soltanto esterna il 109 — articolo che a mio modo di vedere è di importanza essenziale e tuttavia, anzi per ragioni ben intuibili, su di esso non si riflette tuttora abbastanza - dice che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
Che significa tutto questo? Sembra abbastanza evidente che il sistema ruota attorno a una autonomia e indipendenza della magistratura, per cui formalmente sembra tutto sia semplice e sia già stato risolto: la magistratura non può in alcun modo essere influenzata nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali.
Non ci sarà e non ci potrà mai essere, non ci deve mai essere, alcun ministro, alcun Governo, alcun potere esterno alla magi­stratura che possa in qualche modo influenzare l'esercizio della funzione giurisdizionale. Questo, a tacer d'altro, è un principio di altissima democrazia, perché serve a garantire l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Come corollario si richiama l'articolo 112, che parla del concetto di obbligatorietà dell’eser­cizio dell'azione penale. Tutti i cittadini devono essere trattati in maniera uguale e quindi tutti coloro che commettono reati devono essere ugualmente perseguiti.
Sembra una costruzione giuridica i intrinsecamente coerente e dotata di una sua logicità, ma se andiamo poi a guardare un po' più a fondo, un po' più in concreto, ci rendiamo conto che, fermo restando, almeno nella mia prospettazione e nelle mie convinzioni, il concetto di autonomia ed indipendenza della magistratura, poi nel concreto sono tali e tante le questioni, che questo concetto di autonomia e di indipendenza, che viene con tanta giusta enfasi portato avanti dalla magistratura e da vasti settori della società civile, si trova a dover fare i conti con una realtà molto dura e molto difficile da affrontare.
Sono tanti i quesiti che ci si pone e che hanno trovato soluzione diversa in diversi ordinamenti e in diversi momenti storici, anche nel nostro Paese.
Ecco quindi una prima acquisizione: queste enunciazioni di principio di autonomia e indipendenza della magistratura devono fare i conti con tutta una serie di problemi concreti. La soluzione dei quali, in un determinato momento e in un determinato modo rispetto ad altri modi, produce conseguenze di non poca importanza.
Ecco perché mi è sembrato sempre importante avvertire che l'autonomia e l'indipendenza della magistratura sono anzitutto un valore storicamente da valutare, ma soprattutto un valore che ha una sua razionalità, una sua giustificazione, una sua logica, una sua spiegazione, in quanto costituisce non un privi­legio di casta, non un privilegio della magistratura o qualcosa di riservato a una élite di funzionari dello Stato. L'inamovibilità, l'autonomia, l'indipendenza sono valori, oltre che principi co­stituzionali, che servono per l'efficienza della magistratura, non meno che per l'efficienza della pubblica amministrazione in genere. Come anche ha riconosciuto più volte la Corte costitu­zionale, l'articolo 97 della Costituzione – che stabilisce che i pubblici uffici debbano essere organizzati in modo da assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione – è un principio che vale per tutti i pubblici uffici, ivi compresa la magistratura. Da come poi nel concreto viene regolato l'eserci­zio della funzione giurisdizionale, e soprattutto i delicatissimi rapporti fra pubblico ministero e giudice nel processo penale, da come tutto questo verrà stabilito dipenderà nel concreto, sottolineo ancora una volta, il funzionamento, la vigenza di questo principio di autonomia ed indipendenza della magistra­tura. Autonomia e indipendenza che, se da un lato sono stretta­mente legate, devono essere strettamente legate, alla efficienza dell'azione della magistratura, dall'altro lato non significano affatto separatezza della magistratura rispetto alle altre fun­zioni dello Stato.
Io credo che prima o poi si riconoscerà che al principio dell'autonomia e dell'indipendenza è stato attribuito un valore così meccanicistico di separatezza, rispetto alle altre funzioni dello Stato, che nel concreto ciò determina grossi problemi di funzionamento e di raccordo fra le varie funzioni dello Stato.
Credo che sia importante, per cercare di capire che cosa accade rispetto al funzionamento del pubblico ministro, un breve excursus storico per rendersi conto che questi concetti devono essere calati storicamente. Potremmo incominciare dall'ordinamento giudiziario del 1865 — non vi preoccupate, sarò rapidissimo — e dal ruolo del pubblico ministero. Io pongo sempre l'accento sul pubblico ministero, e credo che finalmente un po' tutti, adesso, si rendano conto che è cardine di qualsiasi riforma, non tanto del processo penale, ma soprattutto dell'or­dinamento giudiziario, la concreta disciplina del funzionamento del pubblico ministero. Ritornando al 1865, il pubblico ministero veniva indicato come il rappresentante del potere esecu­tivo presso l'autorità giudiziaria, posto sotto la direzione del ministro della giustizia. Nulla di scandaloso, se questa è la stessa indicazione del pubblico ministero quale abbiamo adesso nell'ordinamento francese. Ed infatti è proprio dall’ordina­mento francese che nel 1865 deriva questa ricostruzione dell'or­dinamento giudiziario e del pubblico ministero in particolare. ln buona sostanza, il pubblico ministero in quell'ottica espli­cava le funzioni di rappresentare e attese del potere esecutivo nel processo penale, in ordine all’amministrazione della giu­stizia.
Ma, se fra diverse vicende è questa la configurazione del pubblico ministero fino al periodo immediatamente antece­dente al fascismo, le cose cambiano, e a mio modo di vedere in peggio, con il codice Rocco e con l'entrata in vigore delle normative di matrice fascista, e nel processo penale e nell’ordina­mento giudiziario. E’ singolare che questa vera e propria esplo­sione dei poteri del pubblico ministero nel processo penale — i meno giovani si ricorderanno il codice del 1930 in cui era previsto, prima della meritoria opera della Corte costituzionale, che il pubblico ministero era in grado di prevaricare e di condizionare non soltanto le altre parti, ma lo stesso giudice istruttore — è singolare che questa accentuazione dei poteri del pubblico ministero venne illustrata con parole che testualmente richiamano le parole che sono state utilizzate nel nuovo processo penale, in cui il pubblico ministero ha poteri enorme­mente inferiori rispetto a quelli del codice Rocco. Cioè quei poteri di allora, e questa regolamentazione delle sue funzioni di adesso, vengono giustificati sul presupposto della restituzione al pubblico ministero del genuino ruolo di parte del processo penale. Ecco come con le stesse parole si possono giustificare soluzioni diametralmente opposte.
Con l'entrata in vigore dell'ordinamento democratico costi­tuzionale, si crea in realtà una situazione di stallo, che è frutto di quell'equivoco o di quella necessaria contrapposizione fra culture di matrice diversa – cultura liberale, cultura cattolica, cultura socialista – alla base della Costituzione. Mentre nel testo della Commissione dei settantacinque il pubblico mini­stero era indicato come colui che gode di tutte le garanzie dei magistrati, questo concetto entra in crisi quando l'onorevole Giovanni Leone, il futuro presidente della Repubblica, presenta un emendamento in cui si afferma che il pubblico ministero è un organo del potere esecutivo. La soluzione, come spesso accade da noi, è «all'italiana». Il testo finale è quello dell'articolo 107, quarto comma, della Costituzione, secondo cui il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Il che porta alcuni – e si tratta di persone di sicura fede democratica – ad affermare che sarebbe possibile, anche adesso, sulla base della Costituzione attuale, senza violare alcun precetto costituzionale, assoggettare il pubblico ministero a qualche ingerenza da parte degli altri poteri dello Stato. Vedi, ad esempio, la soluzione famosa tra gli addetti ai lavori, del 1979, del prof. Pizzorusso, attuale componente del Consiglio superiore della magistratura, che affermò essere possibile sottoporre il pubblico ministero alla vigilanza di una commissione parlamentare.
Non mi sembra che sia il momento né la sede per approfon­dire questi concetti o questi problemi, che sono però di notevo­lissima importanza. Quello che mi sembra importante è rilevare a tutti coloro che ne parlano, e ne devono parlare sempre in numero maggiore, che autonomia o indipendenza della magi­stratura significa ben poco, se poi nel concreto non si indivi­duano soluzioni che possano essere praticabili e su cui fondare certe ricostruzioni. Per esempio, a me sembra che si dovrebbe partire da quella che è l'affermazione ormai costante della Corte costituzionale in materia di pubblico ministero. Il pub­blico ministero è sì un organo giudiziario ma – dico testual­mente –, non essendo titolare della potestà di giudicare, nep­pure può dirsi giudice in senso tecnico. È una affermazione che a molti di voi potrà sembrare ovvia, ma che in realtà, a mio avviso, è il punto di partenza per pervenire ad una ricostruzione logica e accettabile di un pubblico ministero che sia, che debba essere, autonomo e indipendente, ma anche efficiente.
Cosa intendo dire? Intendo dire che quali che possano esse­re nel concreto le soluzioni da adottare, un punto mi sembra fondamentale: il pubblico ministero deve avere un tipo di rego­lamentazione ordinamentale che sia differente rispetto a quella del giudice. Non necessariamente separata; e questo non per assoggettarlo all'esecutivo come si afferma ma, al contrario, per esaltarne l'indipendenza e l'autonomia.
Fra gerarchia e indipendenza vi è tutta una serie di figure intermedie, che servono a fare in modo che l'indipendenza sia finalizzata al raggiungimento degli scopi per cui il pubblico ministero è stato creato. Vorrei ricordare problemi che riguar­dano la mia persona, e li richiamo soltanto perché possono essere utili per spiegare un concetto. Venni accusato, accusato fra virgolette, di volere il pubblico ministero dipendente dall'e­secutivo quando in un convegno dissi che occuparsi della obbligatorietà dell'azione penale è sì un fatto importante, ma non è essenziale. Perché? Perché l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ha una sua valenza diversa, a seconda del processo penale in cui viene configurata l'azione penale in una maniera anziché in un'altra. Per uscire dal vago e per cercare di spiegarmi meglio, nel nostro codice attuale, ispirato a un princi­pio dispositivo: processo di tipo, chiamiamolo, accusatorio, o quanto meno tendenzialmente tale -, l'azione penale viene eser­citata soltanto quando viene formulata l'imputazione e si chiede il rinvio a giudizio dell'indagato, che a quel punto diventa imputato, o si esercitano i riti alternativi.
Tutto questo può sembrare astruso, ma significa so1tanto una cosa su cui pochi riflettono o fanno finta di non riflettere: significa che tutta l'attività delle indagini preliminari, tutta l'attività investigativa svolta dal pubblico ministero, è un'atti­vità che non è regolata, che non sta sotto l'egida del principio dell'obbligatorietà dell'azione peni le.
Quanto detto è stato utilizzato in un convegno, con il richiamo all'articolo 97 della Costituzione, da un illustre auto­re, il quale ha affermato che l'attività delle indagini preliminari, essendo un'attività amministrativa, è disciplinata da quella norma che regola il buon andarmento della pubblica ammini­strazione. Ciò significa introdurre di soppiatto la discrezionalità nella fase delle indagini preliminari. Ecco quindi che si amo di fronte a problemi di una enorme complessità, che non si possono liquidare accusando Tizio o Caio di volere un pubblico ministero dipendente dall'esecutivo, ma cercando di sforzarci tutti quanti per rendere un sistema nel suo concreto coerente.
Sovente, nella mia ormai non più tenera età, ho assistito, da parte degli organi associativi, ad accuse ricorrenti nei confronti del potere politico, di sostanziale inattuazione dell'articolo 109 della Costituzione, quello cioè secondo cui la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria. Abbiamo fatto - o hanno fatto – un codice di procedura penale in cui il rapporto di dipendenza della polizia giudiziaria rispetto alla magistra­tura è ormai pressoché integrale, ed ecco che cominciamo a renderci conto che forse, anche qui, le cose stanno in una linea mediana, per evitare da un lato che il funzionario di polizia si senta deresponsabilizzato, e dall'altro che il pubblico ministero, spesso non dotato di una sufficiente professionalità, possa creare problemi alla conduzione delle indagini, mediante direttive che non sono adatte a quel singolo caso.
Ecco quindi che il problema dell'autonomia e dell'indipen­denza viene calato nel concreto, perché, come sembra intuitivo, una autonomia e indipendenza formale della magistratura significa ben poco. Il pubblico ministero dipende sì dalla magistratura, ma rispondendo ad esigenze e ad istanze decisionali diverse da quelle della magistratura. Allo stesso modo una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico mini­stero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla.
Il rischio che si corre è il richiamo a princìpi solenni su cui tutti quanti non si può non convenire, per la loro razionalità e per la loro rispondenza alla Costituzione; princìpi che poi, nel concreto, vengono vanificati o resi di difficile attuazione da regolamentazioni diverse, che non riescono a rendere il concetto attuale e praticabile.
Ecco perché – e mi avvio rapidamente alla conclusione – a me sembra che fosse necessario il richiamo a quelle pagine del prof. Miglio, per rendersi conto che ormai non c'è più tempo, se mai ve n'è stato, per astratte affermazioni di principio. Occorre fare in modo che queste soluzioni, riguardanti il pubblico mini­stero, e soprattutto in genere l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, rispondano alle reali esigenze della società, siano funzionali alle esigenze della collettività e, come tali, vengano riconosciute come un valore da custodire e rafforzare da parte di tutta la società, e non già un privilegio che, come tutti i privilegi, è sempre odioso.
Di Giovanni falcone. Tratto dal sito dell'A.N.M. (www.associazionemagistrati.it/public/File/intervento_Falcone.doc )
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