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GLI ORDINI PROFESSIONALI, SCONTRO TRA DUE CULTURE.

di Maria Malatesta
Sezioni: FOCUS
Data di pubblicazione 14/08/2007
"Noi non siamo una società, non siamo una corporazione che goda di alcun privilegio; noi siamo, secondo le parole che ereditammo dalle tradizioni romane, un ordine." La definizione dell'Avv. Zanardelli conserva ancora attualità. L'Avvocatura non può essere ridotta ad un centro di interessi economici, che deve gareggiare nel libero mercato con le società mercantili. L'economia non può,da sola, dirigere la società moderna. La Giustizia, sebbene debba essere organizzata secondo le regole dell'efficienza, deve soddisfare le esigenze della collettività, senza rimanere imbrigliata dal tecnicismo economico. Nel lavoro proposto da Maria Malatesta ( In Impresa Stato, Camera Commercio Milano, n. 46) una approfondita riflessione sul ruolo degli ordini professionali. ( Enrico Tortolani )

Una battaglia dal contenuto simbolico, la cui posta in gioco non è solo la libera concorrenza, ma l’identità stessa delle professioni così come si è delineata nell’ultimo secolo.
La battaglia che si sta svolgendo in Italia attorno agli ordini professionali ha un evidente contenuto simbolico. La posta attualmente in gioco non è solo l’introduzione di un regime di libera concorrenza all’interno del nostro sistema professionale. L’equiparazione delle professioni intellettuali all’impresa, che è la premessa concettuale di questo mutamento, rimanda infatti ad un nodo di portata storica. Ciò che viene messa in discussione oggi è l’identità stessa delle professioni italiane, quale si è costruita nel corso della storia dell’Italia unita.
La natura «protetta» delle moderne professioni liberali fu definita nel 1874. Essa trovò la sua espressione più compiuta in un istituto, l’ordine, la cui funzione consisteva nel rappresentare e al tempo stesso garantire la specialità delle professioni intellettuali: l’essere cioè mestieri ad alta utilità sociale, la cui natura eminentemente pubblica implicava che ad essi venissero riconosciuti particolari privilegi, ma che dovessero anche essere sottoposti a particolari controlli.

IL MODELLO FRANCESE
Il modello professionale ancora oggi vigente in Italia deve le sue origini alla legge del 1874 che riordinava e unificava su tutto il territorio nazionale le professioni forensi. La Francia fu il modello a cui si ispirò il legislatore dell’epoca. Dal XV secolo l’ordre rappresentava il corpo degli avvocati francesi e al tempo stesso l’istituto preposto al controllo della professione. L’ordre era infatti inteso come un’associazione di singoli individui uniti da un’attività comune, la cui socializzazione era il risultato del comune possesso della competenza professionale. L’ordre stava così ad indicare la professione stessa di avvocato. Il suo elemento distintivo era l’onore nel quale era racchiuso il capitale simbolico della professione. L’onore creava tanto un sistema di destinazione professionale quanto un sistema di deontologia in base al quale l’ordre veniva investito del potere di disciplinare il corpo professionale.
Soppresso durante la Rivoluzione francese e ripristinato nel 1810, l’ordre francese rimase prerogativa dei soli avvocati. La «paura della corporazione» impedirà fino al 1884 che in Francia si liberalizzi la formazione dei sindacati professionali. Sotto l’impulso di Napoleone, verrà accentuato nel corso dell’Ottocento il carattere pubblico dell’ordre, inteso ora piuttosto come necessità di regolamentazione della professione che come etica.
L’ordre francese, con tutte le evoluzioni avvenute all’interno delle sue funzioni, venne ripreso e adattato al contesto italiano. La linea interpretativa che si affermò fu quella rappresentata da Giuseppe Zanardelli – stilatore del Codice penale dell’Italia unita e futuro primo ministro - secondo il quale l’ordine andava innanzitutto considerato come un’istituzione a cui attribuire il compito di tutelare i diritti e di far rispettare i doveri del corpo forense. In uno dei discorsi pronunciati davanti al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Brescia, di cui era presidente, Zanardelli si espresse in questi termini: «Noi non siamo una società, non siamo una corporazione che goda di alcun privilegio; noi siamo, secondo le parole che ereditammo dalle tradizioni romane, un ordine.»
Il fatto che nell’ordine italiano prevalesse la componente istituzionale, che l’ordinamento prevalesse cioè sul corpo, ha consentito che l’ordine si estendesse nel corso degli anni dalle professioni forensi alle altre professioni liberali, la cui prima credenziale era la formazione universitaria. Era infatti la natura istituzionale e sociale delle professioni liberali ad implicare il concetto di collegialità. L’ordine rappresentava così la socializzazione del corpo professionale ed esprimeva il riconoscimento del valore sociale della professione.
LA PROFESSIONALIZZAZIONE ITALIANA
Con la creazione dell’ordine degli avvocati e dei procuratori iniziò la parabola della professionalizzazione italiana sorta – come avvenne nell’Europa continentale – grazie alla spinta dello stato, ma poi proseguita in forza degli stimoli provenienti dagli altri corpi professionali, desiderosi di trovare nell’ordine un riconoscimento professionale e sociale paragonabile a quello degli avvocati.
L’autonomia degli ordini otto-novecenteschi non fu molto ampia. Per la cultura dell’epoca l’ordine rappresentò, più che la prova dell’autonomia professionale, il trionfo dello stato e della sua capacità di riconoscere, regolamentandoli, i corpi sociali. L’ordine controllava le credenziali richieste dallo Stato per iscriversi all’albo professionale: il possesso del diploma di laurea, il superamento dell’esame di abilitazione alla professione, la cittadinanza, la buona condotta, l’incompatibilità con altre professioni. La funzione di certificazione degli ordini è rimasta a tutt’oggi la stessa, così come inalterato è rimasto il loro potere di disciplinamento del corpo professionale.
Il regime repubblicano ha rafforzato l’autonomia amministrativa, normativa e giurisdizionale degli ordini. Soppressi negli anni Trenta dal fascismo allo scopo di riassorbire l’autonomia dei corpi professionali all’interno del regime corporativo, gli ordini sono stati ripristinati a partire dal 1944 ed estesi anche alle professioni che erano state riconosciute e regolamentate durante il fascismo. La Repubblica si è riallacciata alla tradizione liberale, recuperando al tempo stesso la cultura pubblica delle professioni diffusasi durante il fascismo. Con la legge del 1938 infatti veniva affermato il principio del riconoscimento della funzione pubblica delle professioni intellettuali e l’obbligatorietà dell’iscrizione agli albi.
Il significato rivestito sul lungo periodo dagli ordini italiani è stato soprattutto quello di dare una veste istituzionale alla specialità di alcune professioni intellettuali, individuabile nella funzione di utilità pubblica che queste riuscirono ad imporre e che fu loro riconosciuta.
Nel corso della sua storia l’ordine professionale italiano non è mai stato in grado di limitare la concorrenza professionale, giacché l’iscrizione agli albi non è mai riuscita ad arginare la crescita del numero dei professionisti. E infatti dal primo Novecento, in concomitanza con l’inizio di una maggiore diffusione dell’istituzione superiore, i professionisti italiani hanno sempre invocato metodi malthusiani, consistenti per lo più nel domandare allo Stato di controllare gli accessi all’Università. Ci sono riusciti da non molto i medici. Ma gli unici vincenti in questo campo sono stati i notai i quali, sfruttando la loro duplice identità di liberi professionisti e di funzionari dello stato, sono riusciti a controllare rigidamente l’accesso alla professione.
Sostiene Magali Sarfatti Larson che la crisi in cui versano attualmente tutte le professioni nel mondo occidentale è dovuta alla perdita di quell’identità di civil service che fu ovunque all’origine del moderno professionismo. Non si può escludere che gli ordini abbiano perso oggi la loro funzione per il fatto che le professioni non si identificano più nel modello del civil service, ma tendono ad assumere come unico referente il mercato.
In questo caso, la battaglia sugli ordini professionali a maggior ragione simboleggia il conflitto tra due identità e due culture.
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Appleton I., Traité de la profession d’avocat, Paris, 1928
Fitzsimmons M.P., The Parisian order of barristers and the French Revolution, Cambridge, Mass, 1987
Malatesta M., L’ordine professionale, ovvero l’espansione del paradigma avvocatizio, "Parole chiave", 7/8, 1995
Malatesta M. (ed), I professionisti, storia d’Italia, Annali 10, Torino, 1996: in part. vedi saggi di A. Cammelli, A. Di Francia, Studenti, università e professioni: 1861-1993, e M. Santoro, Le trasformazioni in campo giuridico. Avvocati, procuratori e notai dall’Unità alla Repubblica
Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, in Trattato di diritto civile e commerciale, vol. XXVII, t. 1, Milano, 1996
Sarfatti Larson M., Reflexions on precariors orders, in R. Björk, K. Molin (eds), Societies made up of history, Edsbruk, 1996
Zanardelli G., L’avvocatura. Discorsi, Milano, 1920

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